I delinquenti: recensione del film di Rodrigo Moreno
Distribuito da MUBI in collaborazione con Lucky Red, il film del regista esponente del movimento Nuovo cinema argentino è un anti-heist poetico che si prende i suoi tempi per inseguire il sogno di libertà dei due svagati protagonisti.
“Chi non lavora non fa l’amore” cantava Adriano Celentano, ma per Morán e Ramón, impiegati di una banca cooperativa porteña – di Buenos Aires città –, è il contrario: chi lavora non fa l’amore. O, perlomeno, se l’amore la fa, non con quell’abbandono che vivifica e convince della vivibilità della vita. I delinquenti, lungometraggio di 180 minuti distribuito da MUBI nelle sale italiane dall’11 aprile 2024, satirizza poeticamente e liricizza satiricamente un interrogativo collettivo di grande attualità: fino a che punto il lavoro serva a vivere, e non invece uccida lentamente quando si è ancora, almeno da un punto di vista biologico, in vita.
I delinquenti: storia di due bancari che rubano per salvare la ‘pelle’ dalla morte in vita
Morán calcola che, negli anni che mancano alla pensione, guadagnerà circa l’equivalente di 325mila dollari. Il suo collega Ramón, con cui condivide la pizza post lavoro il venerdì sera, ugualmente. Decide allora di sottrarre 650mila dollari dal caveau della banca per cui lavora e, qualche giorno dopo l’operazione e l’occultamento della refurtiva, andare a costituirsi: è convinto che, se in prigione si comporterà bene, in tre anni e mezzo sarà fuori, a fronte di trent’anni di lavoro residuo per raggiungere i contributi necessari a pensionarsi. Ramón lo coprirà; conclusa la pena detentiva del reo, i due amici potranno dividersi il bottino. E, finalmente, vivere.
La morte stillicida – un logorio lento e continuo, fila di giorni tutti uguali che vampirizzano le energie – a cui conduce in vita il lavoro contro il congelamento momentaneo della vita stessa: il dilemma si risolve in fretta per Morán, ladro improvvisato che tuttavia argina rapidamente le remore della coscienza per accorciare la durata di un castigo ben più duro (e mortificante) della prigione. Rodrigo Moreno, cineasta classe 1972 aderente al movimento del Nuovo cinema argentino, nueva ola nata grazie all’agile sistema produttivo mediante il quale il Paese latinoamericano riesce con relativa facilità a lanciare anche autori privi o carenti di mezzi tecnici, ma ricchi di inventive immaginifiche, parte da presupposti interessanti per questo film-antifilm (o meglio anticinematografico): dopo la pandemia, infatti, anche nelle società in crescita in cui le opportunità di lavoro si sprecherebbero, sembrerebbe essersi verificato un capovolgimento di paradigma. Soprattutto i più giovani hanno iniziato a mettere in discussione la legittimità di un sistema valoriale incardinato sul dovere professionale e sulla colpevolizzazione del piacere. Ora l’ambizione dei più o meno giovani è di lavorare meglio e meno, di anteporre la sostanza affettiva, e quindi generativa, della vita allo status acquisibile attraverso il lavoro e i suoi riconoscimenti, per alcuni spesso soltanto economici.
I delinquenti: valutazione e conclusione
Il film di Moreno intercetta dunque meritoriamente la volontà – e non il desiderio o la voglia, proprio la ferma volontà – di recuperare e difendere il diritto a vivere dai rosicchiamenti continui delle incombenze professionali e della monotonia di un quotidiano percepito come la peggiore delle carceri. Il trauma non è solo un evento contundente che ammacca indelebilmente la continuità psichica, ma anche l’insieme di tanti microeventi stressogeni, lesivi in tono minore. All’infilzata di microeventi traumatici sferrata dalla routine lavorativa, Morán reagisce e resiste, e la sua personale epopea passa anche attraverso la scoperta dell’amore carnale, non più mediato dalle deviazioni e dagli accartocciamenti che nevrotizzano (e necrotizzano) l’eros capitalizzato e imbrigliato nella cultura prestazionistica della produttività.
Per mezzo di un furto, crimine ‘necessario’, recupera anche il contatto con un desiderio erotico che ora può sì finalmente sgorgare, non più dilazionato o costretto, non più rimandato: la donna salvifica, lo strumento che permette a un processo di individuazione interrotto dall’iperpianificazione esistenziale, non intende però l’amore in senso esclusivo. Questo complica un po’ la vicenda, ma insieme riafferma l’urgenza del desiderio assecondato di per sé, al di là di trascendenze o finalismi: amare, e farlo ora, è più importante di lavorare. È più importante di tutto. Freud diceva che la buona salute mentale dell’individuo si riconosce dalla sua capacità di lavorare e di amare. Ora che la capacità di lavorare fagocita quella d’amare, bisogna scegliere, cedere all’aut aut: amore e lavoro non possono che configurarsi come concorrenti e, tra loro, bisognerà decidere chi la spunta.
I delinquenti è un film che mescola registri, immaginari e temi: c’è l’idillio raggiunto attraverso la reconquista della campagna, di un mondo bucolico che si fa soprattutto categoria dello spirito, modo d’essere che rifiuta i dettami di una civiltà ammalata della sua esuberanza civilizzatrice; c’è l’heist movie ribaltato, il colpo (neanche tanto) grosso fatto non per arricchirsi, ma paradossalmente per depauperarsi, per salvarsi dall’assillo di un lavoro percepito come incombente potenza estorsiva; c’è il romance deromanticizzato che crede alla saggezza del corpo, spesso irrazionale e inverante, più che al contratto fideistico infuturante che rimanda sempre a domani la soddisfazione di un desiderio che si rivendica legittimamente vorace; ci sono le avventure di formazione, a loro modo un po’ western, di due adulti svagati che si sono trasformati in fuorilegge per salvare letteralmente la pelle: dalla morte in vita; dall’assenza di contatto, dall’anestesia del sentire.
Un’esperienza visivo-drammatica sia aderente al dettaglio sia avvolgente in senso olistico, quella a cui lo spettatore si consegna scegliendo di vedere questo film, che, coerentemente con quanto rappresentato, richiede di essere fatta senza guardare l’orologio o scrollare il feed di TikTok. Rodrigo Moreno è tanto un pensatore civile per immagini quanto un video-artista radicale che crede ancora che il cinema possa cambiare sostanzialmente le cose, aprirci all’urgenza di perdere la centralità dell’io (l’io formatosi come risposta alle molle educative e sociali) e, nel contempo, perderci nella relazione quale agente di risveglio, di affermazione vitalizzante e liberatrice del sé.