Korea Film Fest 2021 – I Don’t Fire Myself: recensione
L'impiegata Jeong-eun viene trasferita in una società di subappalti. Cerca di inserirsi, ma i suoi colleghi non sono a loro agio con lei e lei è completamente spaesata. Nonostante tutto, vuole rimanere per un anno e poi tornare alla sede centrale, non importa come...
La tragedia del precariato, del mobbing, del bullismo sul luogo di lavoro: I Don’t Fire Myself – in concorso al Korea Film Fest 2021 – non ci mostra nulla di nuovo, ma ha una fortissima valenza sociale. Tratto da una storia vera, ci pone di fronte a una situazione tanto particolare quanto universale, valida a tutte le latitudini. Il coinvolgimento emotivo, nel film di Lee Tae-gyeom, sta tutto qui, anche perché sceneggiatura e messinscena si rivelano piuttosto fredde e distaccate, evitando di approfondire eccessivamente i caratteri in gioco.
Un semplice ma sobrio dramma civile sulla lotta disperata di una donna per la sua dignità e la sua esistenza, in estrema sintesi, che ricorda naturalmente in una certa misura le opere dei fratelli Dardenne e di Ken Loach attraverso un esame acuto di alcune vergognose ingiustizie sistemiche, tra cui la discriminazione sessuale e lo sfruttamento. Al centro di tutto c’è la dipendente Jeong-eun, impiegata di una grande compagnia elettrica che viene mandata per un anno in una società di subappalti.
I Don’t Fire Myself: lavorare per vivere, vivere per lavorare
Appare abbastanza chiaro che l’azienda abbia trasferito la ragazza solo per sbarazzarsene, portandola all’esasperazione e al licenziamento: nella remota area rurale in cui Jeong-eun si trova improvvisamente catapultata, il compito sarebbe quello di supervisionare lo sparuto gruppo di operai che lavora lì. Fin dal primo giorno, però, la situazione si fa tesissima e il manager le ricorda che non c’è davvero nulla che lei possa fare in quel luogo se non occupare semplicemente in silenzio la sua scrivania. La donna viene vista come un corpo estraneo da rigettare, quasi una spia del datore di lavoro.
Inizia qui la personale battaglia di Jeong-eun, naturalmente non in opposizione ai colleghi manovali – che pure non esitano a escluderla da qualunque attività – ma contro l’azienda che l’ha brutalmente vessata. Si lavora per vivere e sopravvivere, e in questa ottica la giovane stringe un’insolita amicizia con Choong-sik, che per mantenere le tre figliolette svolge tre mansioni (oltre a scalare i tralicci dell’alta tensione, infatti, è un autista e lavora in un piccolo supermarket). Un feeling, il loro, che (fortunatamente) non si trasforma in una convenzionale storia d’amore, restando sui binari della solidarietà e del genuino senso di reciproca compassione.
“Essere licenziati fa più paura che morire”
Come già accennato all’inizio, non si può dire che I Don’t Fire Myself punti sul trasporto emozionale: sembra quasi di assistere a un documentario o a un asettico reportage. Possiamo immaginare sia tutto minuziosamente voluto, considerato che l’obiettivo principale è quello della denuncia e della presa di coscienza collettiva. Questo non significa che lo sguardo di Jeong-eun non lasci trasparire una vasta gamma di sensazioni: la paura per il futuro, la vulnerabilità derivante dal suo passato, la rabbia – soprattutto nella parte finale – per l’ingiustizia del presente.
Il microcosmo dipinto da Lee Tae-gyeom, per quanto qua e là sembri calcare la mano su alcuni personaggi secondari, è pessimista e iperrealista: anche se non vengono pagati abbastanza rispetto ai loro numerosi rischi professionali, i subappaltatori non possono lamentarsi perché questo li porterebbe sicuramente a perdere il lavoro, e non hanno altra scelta che fare qualsiasi cosa l’azienda chieda loro di fare in qualsiasi momento. Non ci viene fornita una risposta preconfezionata, né una lezioncina da imparare; sul tavolo restano indiscutibili dubbi e frustranti domande. Domande alle quali prima o poi qualcuno dovrà dare una risposta.