I soliti sospetti: recensione del film di Bryan Singer
Ritmo serrato, interpretazione da Oscar e un turning point che ha fatto scuola: ecco I soliti sospetti di Bryan Singer.
And the winner is…Kevin Spacey. Per tutti gli appassionati di thriller, I soliti sospetti è uno piccolo cult degli anni Novanta. Con un cast ottimamente assemblato, in cui trionfa – sempre una spanna sopra gli altri – Kevin Spacey, il film di Bryan Singer è un gioiello di sceneggiatura, con uno dei finali meglio costruiti della filmografia del genere.
I soliti sospetti si apre a Los Angeles, durante una notte infernale in cui si è consumata una vera e propria strage. Una nave è in fiamme nel porto di San Pedro, dove giacciono inermi una trentina di cadaveri carbonizzati. Lo scenario sembra essere quello di un regolamento di conti della malavita, a cui sopravvivono solo un marinaio ucraino gravemente ustionato e il truffatore zoppo Roger “Verbal” Kint (Spacey), miracolosamente scampato alla sparatoria e all’incendio. Kint ottiene rapidamente l’immunità, ma viene ugualmente interrogato dall’agente della dogana David Kujan (Chazz Palminteri): la ricostruzione dei fatti conduce lo spettatore nel secondo piano narrativo del film, in cui emerge la storia della banda e del terribile boss criminale Keyser Söze.
I soliti sospetti: il mito di Keyser Söze
Secondo la testimonianza di Verbal – che si è guadagnato questo soprannome per sua una certa predisposizione ai lunghi monologhi – il dream team della New York criminale si aggrega durante un confronto all’americana convocato dalla polizia per arrestare il responsabile di una rapina. Nella stessa stanza si ritrovano, allora, Dean Keaton (Gabriel Byrne), Kevin Pollak (Todd Hockney), Ray McManus (Stephen Baldwin), Fenster (Benicio del Toro) e, naturalmente, Verbal. Nonostante le reticenze di Keaton – un ex poliziotto corrotto deciso a ripulirsi la fedina penale – i cinque si accordano per tentare un colpo: il successo dell’iniziativa porta i criminali a Los Angeles dove sono intercettati dall’avvocato Kobayashi (Pete Postlethwaite) che commissiona loro un colpo da 91 milioni di dollari. Alle spalle dell’operazione c’è il misterioso Keyser Söze, una sorta di Babau della criminalità americana, un potente e folle boss di origine turca che nessuno ha mai visto in faccia.
I soliti sospetti, un thriller da Oscar
I soliti sospetti rappresenta un picco qualitativo per le carriere del regista Bryan Singer e dello sceneggiatore Christopher McQuarrie, che vince per questo suo avvincente script l’Oscar per la Migliore Sceneggiatura Originale. Singer, dal canto suo, si diverte con una regia d’azione pulita e avvincente, in cui anche le scene sopra le righe sono in qualche modo giustificate nel finale, uno dei turning point più interessanti del decennio. Avvincente e memorabile nella sua prima visione, I soliti sospetti guadagna un valore diverso alla seconda vista e in quelle successive, in cui si riescono ad apprezzare maggiormente le sfumature interpretative e registiche. Il personaggio di Verbal fruttò a Spacey la sua prima vittoria agli Oscar come miglior attore non protagonista, portandolo alla ribalta internazionale per le sue indiscutibili doti attoriali. È il 1995 e Spacey ha alle spalle più di dieci interpretazioni accreditate, ma è col personaggio del truffatore Verbal Kint che riesce finalmente a esplodere in tutto il suo potenziale e tracciare un punto di non ritorno (o quasi) verso il successo.
I soliti sospetti: niente è quel che sembra
In a world where nothing is what it seems you’ve got to look beyond (In un mondo in cui niente è quel che sembra devi guardare oltre). Il claim del film usato nei paesi anglofoni è a sua volta un indizio disseminato dagli autori per rendere ancora più eclatante la costruzione della storia e della sua chiusura. “Chi è Keyser Söze?” domanda ripetutamente il personaggio interpretato da Spacey, lasciando il quesito nelle mani del pubblico. Sin dal primo cenno alla figura del boss – infatti – lo spettatore è naturalmente portato a interrogarsi sulla sua identità, sovrapponendosi con la figura dell’agente Kujan, l’attento uditore della confessione di Verbal Kint. Al di là del mistero del protagonista, I soliti sospetti svela tutto e il contrario di tutto, raccontando di poliziotti corrotti, criminali valorosi e amicizie nate nelle condizioni meno probabili. Un crime drama sempre attuale, capostipite di un micro-genere (il critico Roger Ebert definirà Sindrome di Keyser Soze una certa tendenza degli sceneggiatori al colpo di scena finale) che merita assolutamente di essere visto e rivisto.