Berlinale 2019 – I Was At Home, But (Ich War Zuhause, Aber): recensione

I Was At Home, But è il nuovo film di Angela Schanelec, un'analisi del cinema e del lutto presentata in concorso alla Berlinale.

Esiste un luogo particolare nell’arte cinematografica nel quale la narrazione non serve a molto. Riguarda un cinema fine a se stesso, d’avanguardia e che raramente è facile da fruire. Se in questo momento, quel luogo, dovesse selezionare un rappresentante, la scelta ricadrebbe su I Was At Home, But (titolo originale Ich War Zuhause, Aber). Il film, diretto da Angela Schanelec, che ne ha curato anche la sceneggiatura, è stato presentato in Concorso durante la Berlinale 2019.

Nel film, infatti, non esiste una vera e propria storia a guidarci. In pieno spirito voyeuristico ci fa osservare la vita che passa, indisturbata, languida e costante, senza che nulla (né il pubblico, né i protagonisti) possano modificarne il corso. Infatti, sappiamo molto poco di ciò che ha dato l’impulso iniziale a quello che stiamo guardando. Un ragazzino torna a casa dopo essere sparito per molto tempo; la madre, la sorellina e gli insegnanti ne affrontano il ritorno, catturati – nel frattempo – da un esistenzialismo che non lascia spazio alla logica.

I Was At Home, But è un insieme di sequenze decontestualizzate e immobili

Ogni scena del film è paragonabile a un pensiero, un’idea. E in quanto tale è labile, può sparire facilmente e spesso non ha alcun senso. Non possiamo controllare tutto quello che accade nella nostra testa, nei nostri sogni e allo stesso modo la Schanelec manifesta apertamente la sua incapacità di controllare il film. Le sequenze, spesso immobili, lentissime, (per usare un termine inflazionatissimo) oniriche, si susseguono senza seguire un discorso, appaiono e scompaiono in maniera profondamente metaforica.

I Was At Home, But cinematographe

Noi, come pubblico, siamo distanti. Lontanissimi da quello che sta succedendo. Lo osserviamo con poca attenzione e molta curiosità. Siamo alla ricerca di un senso, di una storia, di una vicenda da seguire. Rivelazione che non arriva. Ecco allora che siamo più voyeur che mai per colpa di I Was At Home, But e ci sentiamo colpevoli di un’intromissione incontrollata.

Il film – quasi un progetto d’essay – ruota su se stesso come un mosaico, un collage di momenti assurdi. Il pubblico è incaricato di mettere insieme i pezzi, ma a questo puzzle non c’è volutamente alcuna soluzione. Non è possibile costruire una linea di pensiero coerente e che manifesti la giusta importanza emotiva. Almeno, non quella che spesso il film cerca di comunicarci. Ci chiede di ridere di un umorismo nascosto (quasi invisibile), ci chiede di commuoverci per un dramma familiare di cui non capiamo davvero l’entità e il significato.

I Was At Home, But parla di famiglia, lutto e dell’essenza stessa di cinema

Molto spesso al centro della scena c’è la madre (Maren Eggert), che si cala nel ruolo di veicolo emotivo turbinante e confuso. È frustrata, è aggressiva, è vulnerabile. Ama i suoi figli, li allontana, sta sulla difensiva. Scopriamo che tutto è stato scatenato dalla morte del marito, il padre dei suoi figli, quando la vediamo sdraiarsi sulla sua tomba mentre nell’aria risuona una cover (bellissima) di Let’s Dance di David Bowie da parte del cantautore M. Ward.

I Was At Home, But è un enorme e pretenziosa analisi del cinema, delle emozioni, del lutto. La regista mette tutto in discussione, persino l’idea stessa degli attori. Vediamo apparire sullo schermo una classe di bambini che prova e riprova alcune scene dell’Amleto e lo fa in maniera decontestualizzata, proprio come il teatro e la vita. È un insieme di elementi incoerenti e, in tutta franchezza, una perdita di tempo.

Regia - 1.5
Sceneggiatura - 1
Fotografia - 4
Recitazione - 1
Sonoro - 3.5
Emozione - 0.5

1.9

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