Il bambino di cristallo: recensione del film con Zachary Levi

Il bambino di cristallo, nelle sale italiane dal 27 marzo 2025, è la storia di una famiglia, di una condizione, delle fatiche e delle ricompense della vita. Con Zachary Levi, Meghann Fahy e Jacob Laval.

L’originale The Unbreakable Boy (Il bambino o il ragazzo indistruttibile) contraddice l’italiano Il bambino di cristallo, sì o no? Parlarne è un modo come un altro per ragionare sulla frustrante complessità del film diretto da Jon Gunn con Zachary Levi, Meghann Fahy e Jacob Laval, nelle sale italiane dal 27 marzo 2025 per Notorious Pictures: c’è talmente tanto, dentro, che si può indirizzarne il senso in direzioni diametralmente opposte, logiche entrambe, perfettamente accettabili ma non così esaustive. Il titolo americano suggerisce un’idea di resistenza e stoica accettazione delle difficoltà della vita, l’italiano una fragilità preziosa, da maneggiare con cautela. Il punto, il problema, è che si tratta di interpretazioni ugualmente valide e non serve altro per spiegare la densità di un film che prova a essere troppo (troppe cose, troppi personaggi) nello stesso momento e, quando si tratta di tirare una linea – e trovare coerenza – sceglie la strada più semplice, quella di più facile presa sul pubblico ma anche la più superficiale e controversa. Da una storia vera, The Unbreakable Boy: A Father’s Fear, a Son’s Courage, and a Story of Unconditional Love di Scott LeRette e Susy Flory.

Il bambino di cristallo: di ossa che si rompono e di anime inossidabili

Il bambino di cristallo; cinematographe.it

La storia ce la racconta Austin (Jacob Laval), dall’inizio alla fine. L’esuberante, onnipresente e autoironico voiceover è un espediente che funziona per due: bilancia la serietà dell’argomento e racconta, dall’interno, il protagonista. Austin parla della sua vita fuori del comune cominciando dal principio, dal primo incontro tra i suoi genitori, Scott (Zachary Levi) e Teresa (Meghann Fahy). Lei lavora in un negozio di abbigliamento, lui è un omone che parla ancora con il suo amico immaginario, Joe (Drew Powell), e non si è mai impegnato seriamente in nulla che non fosse il suo lavoro. Scott è colpito dal carattere e dall’intraprendenza di Teresa, dai suoi bellissimi occhi azzurri; vengono con un segreto, gli fa lei.

Scott lo scopre al quarto appuntamento, quando Teresa gli comunica di essere incinta e la coppia, che si frequenta sì e no da un paio di settimane, comincia a metter su, di punto in bianco, una famiglia. Teresa ha una malattia, l’osteogenesi imperfetta, per cui le sue ossa sono fragili come il cristallo e vanno trattate con cura. La malattia è genetica e c’è il rischio di trasmetterla a Austin. Così è, anche se lo capiscono dopo un po’, ma non finisce qui. Scott e Teresa, che all’inizio stanno insieme anche se non sono sicuri di amarsi, hanno un altro figlio insieme, Logan (Gavin Warren), e più o meno nello stesso periodo scoprono che Austin non ha solo ossa di cristallo, ma fa anche parte dello spettro autistico. La sua condizione si esprime con una parlantina esagerata, un carattere estremamente vivace e un’iperattività difficile da contenere.

Jon Gunn costruisce l’impalcatura del film partendo dalla mappa delle personalità: Teresa è consapevole (dal suo passato) che ci sarà da faticare, Logan è insolitamente maturo per la sua età, Austin è un big bang di vitalità che non si imbriglia facilmente, Scott è un uomo-ragazzo. Dei quattro personaggi, il film ha interesse soprattutto per Scott e Austin. Il bambino di cristallo è il cinematografico passo a due di un padre travolto dalle responsabilità e dal senso di inadeguatezza – da qui la dipendenza dall’alcol – e un figlio in totale sintonia con il mondo e il suo modo di essere, al punto che sembra lui l’adulto e il padre un bambino. Austin ha ossa di cristallo, Scott ha l’anima fragile. Dovranno imparare a curarsi. Il messaggio è edificante, l’atmosfera è giocosa e commovente, e Jon Gunn ne approfitta per metterci dentro tutto: la malattia, l’impatto della malattia sulla stabilità di una famiglia, i problemi economici, la frustrazione, l’alcolismo, la fatica e la gioia di farsi cambiare la vita dai figli. C’è tanto, c’è troppo.

Il film fatica a gestire la sua complessità

Il bambino di cristallo; cinematographe.it

Ci sono anche scelte azzeccate, né manca la volontà di allargare lo sguardo oltre il modello di storytelling – il cinema della malattia – per far entrare lo spettatore nella storia in maniera più matura. Il bambino di cristallo non è solo il racconto di un ragazzo e della sua condizione, è anche la storia di come la condizione di uno influenzi – non sempre per il meglio – la vita di quelli che gli stanno accanto. Nel momento in cui l’autismo di Austin viene diagnosticato è come se, suggerisce Jon Gunn, tutta la famiglia finisse per sperimentarlo sulla propria pelle.

Il film guarda al figlio per raccontare i genitori – la stanchezza, l’ansia, la paura, l’insofferenza per il carattere del ragazzo, che a volte è semplicemente troppo da sopportare – e il fratello minore, il piccolo Logan, che ha sulle spalle la croce di ossa robuste e nessuna particolare forma di autismo e deve cavarsela da solo; la maturità, l’empatia nella prova del giovane Gavin Warren sono rimarchevoli. Il problema insolubile, qui, è che la geometria narrativa e tematica del racconto – un padre fisicamente forte ma spiritualmente spezzato deve combaciare con un figlio fragile nel corpo ma inossidabile dentro – richiede una profondità di dettaglio (psicologico, di intreccio) che il film non ha nelle sue corde.

Funziona, Zachary Levi, per l’idea che il pubblico ha di lui, per quell’aria di bambinone che non ha troppa voglia di crescere, per il passato da stella del cinecomic più giovane che ci sia (Shazam); funziona, nel restituire l’immaturità, le fragilità interiori e la vischiose dipendenze di Scott. Funziona, la dignità e la maturità sofferta di Meghann Fahy; funziona, la straordinaria vitalità del bravissimo Jacob Laval. Austin è un vulcano di idee e sensazioni e il rischio era, correndo troppo, di offrirne solo la superficie. Il giovane attore americano ne coglie lo spessore, gli alti e i bassi, senza risparmiarsi.

Non è largo abbastanza, il film, per fare spazio alla complessità della storia: l’alcolismo di Scott, il passato di Teresa, i problemi finanziari, il matrimonio sotto pressione, l’ambivalenza della condizione di Austin nel rapporto con i familiari (una straordinaria opportunità e una fonte perenne di stress e ansia). Annacqua il messaggio – l’invito a non lasciarsi travolgere e ad accettare la complessità della vita come un meraviglioso regalo – con un’uniformità di tono snervante e un’atmosfera di smaccato, zuccheroso ottimismo che appiattiscono la vicenda, condannandola a una bidimensionalità superficiale e frustrante.

Il bambino di cristallo: valutazione e conclusione

Il bambino di cristallo esce nei cinema di tutto il mondo nella prima metà del 2025 nonostante sia stato girato alla fine del 2020 e lo sbarco in sala fosse previsto due anni più tardi. C’entra, forse, il recente e controverso passato di Zachary Levi, le tante prese di posizione, dall’endorsement a Donald Trump ai vaccini. Il mutato clima culturale politico degli Stati Uniti ha cambiato le carte in tavola e recuperato il film dall’oblio? Può darsi, ma parlarne non basta a cancellare l’impressione di colossale occasione sprecata. Il bambino di cristallo ha tutto quello che generalmente manca, al controverso cinema della malattia e del dolore – la volontà di raccontare una condizione negli aspetti più luminosi e nelle zone d’ombra – ma anche il suo peggior difetto: un’attitudine costruttiva e positiva (di per sé, niente di sbagliato) portata a estremi superficiali, sentimentali e vagamente zuccherosi. Bisogna riflettere se il problema sia più universale, che particolare; non il singolo film, ma il genere. Il cinema della malattia può essere salvato dai suoi peggiori difetti? Il bambino di cristallo non offre certezze in questo senso, ma neanche appigli rassicuranti.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 2

2.3