Il cigno nero: recensione del film di Darren Aronofsky
Con Il cigno nero Aronofsky mette ancora una volta al centro dell'attenzione il corpo di un singolo e il suo sfasato punto di vista sul mondo interiore e circostante.
Il cigno nero (Black Swan) è un film di Darren Aronofsky, presentato nel 2010 come film d’apertura alla 67esima edizione del Festival del cinema di Venezia e, successivamente, presentato al Toronto Film Festival. Il film ha per protagonisti Natalie Portman (che per la sua prova vinse un Oscar come Migliore attrice), Vincent Cassell, Winona Ryder e Mila Kunis.
Protagonista del film è Nina, ballerina del New York City Ballet che fa della danza la sua vita. Tormentata da una madre prevaricatrice e allenata da Thomas Leroy, suo esigente maestro, si danna alla ricerca della perfezione nella vita come nelle scarpette. Una notte, Nina sogna una versione inquietante de Il lago dei cigni, la stessa che Thomas presenterà al pubblico la mattina seguente: nella nuova ambiziosa variazione, sarà una sola ballerina ad interpretare Odette – principessa trasformata in cigno dal mago Rothbard – e contemporaneamente Odile, cigno nero che vota quello bianco al suicidio, spingendolo alla rinuncia del vero amore e all’unica possibilità di salvezza dal sortilegio.
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Piena di armonia ed eleganza, non sarà difficile per Nina riuscire a interpretare la fragile e bianca Odette: i problemi sopraggiungeranno quando scoprirà di essere quanto di più lontano dalla Odile pensata da Thomas, e si moltiplicheranno inesorabilmente nel momento in cui giungerà Lily, del tutto a suo agio come novella Odile…
A volte è necessaria la realizzazione di una grande opera per ricordarne un’altra. Per questo motivo sembra difficile pensare che l’uscita de Il cigno nero, datata 2010, non sia stata da Darren Aronofsky pensata per essere una sorta di omaggio a quel grande film di culto che fu Scarpette Rosse, che proprio un paio di anni prima celebrava i sessant’anni dalla sua uscita. Se pure fosse una bizzarra coincidenza, non si può certo fare a meno di pensare che l’opera di Michael Powell ed Emeric Pressburger sia stato un passo fondamentale per la realizzazione de Il Cigno Nero: un punto di origine basilare per ovvie ragioni, sì, eppure non emulato.
Il cigno nero mette in atto lo scontro tra psiche e leggi del corpo
Aronofsky è ben lontano dall’immergere la sua ballerina nel tripudio di colori che investe l’opera di Powell e Pressburger, e cala la sua protagonista nel contesto urbano di una zona periferica della Grande Mela, prediligendo il grigiore dei suoi vicoli e delle sue metrò, frettolosi pedinamenti di nuche che sfocano la folla e la città relegandola sullo sfondo, soprattutto quando a essere pedinata è Nina.
Già da queste poche consapevoli scelte si può comprendere come al centro dell’attenzione dello sguardo di Aronofsky ci sia, ancora una volta dopo The Wrestler, il corpo di un singolo, e il suo sfasato punto di vista sul mondo interiore e circostante. E allo scopo ben si presta Il lago dei cigni, il balletto dei balletti, classico del teatro di danza di doppi e simbolismi (cigno bianco contro cigno nero), con i suoi velami psicoanalitici a far da perfetta base per l’edificazione della tragedia del soggetto psicolabile. Il corpo del film, quello di Natalie Portman, sfida la mente, che rifiuta la coerenza della materia e si stacca dalle sue leggi: dai violenti contrasti interiori comincia la metamorfosi corporale, che galoppa in un limbo dove reale e immaginario scivolano l’uno nell’altro senza più limiti, nemmeno per il genere cinematografico.
Il cigno nero: paura della crescita e desiderio di rimanere bambine
Un po’ figliastra della pianista di Michael Haneke, un po’ sua controparte, Nina fugge dalle quattro mura che vedono crescere il suo rapporto con la tirannica madre segregandosi fra le quattro mura della sala di danza: ma la ricerca del cigno nero, la ricerca della donna dentro di sé, è un incubo a occhi aperti per l’eterna adolescente repressa, che sogna il principe azzurro – Thomas, surrogato di un padre assente – ma respinge ogni impulso sessuale. La parabola de Il Cigno Nero non è che la rivelazione di un’identità nuova, impossibile da allontanare: è la paura della crescita personale, irruenta quanto più ripudiata, in quanto individui di carne e materia organica. I sensi prima della pratica, il sesso prima dei valori, l’abbandono delle radici genitoriali come tappa necessaria per smettere di essere bambini: il cigno bianco è una fase obbligata per entrare in contatto con il proprio cigno nero e diventare adulti. Invece il sogno di Nina è, a costo di sopprimere ogni minimo slancio vitale, solo quello di poter essere sul palcoscenico il miglior cigno bianco possibile, e rimanere tale nella vita di tutti i giorni.
Prima ancora che donna, prima ancora che organismo, Nina è invece la lattea e immacolata ballerina dei sogni fanciulleschi di ogni bambina, verginale e angelica, quella che le mamme vorrebbero custodire per sempre. Divorata dalla pratica, da complessi di inferiorità faticosamente tradotti nel desiderio di primeggiare (surrogato di un desiderio sessuale che è ormai bisogno), da disordini alimentari di ogni tipo e disturbi di personalità come frutto di secolari repressioni, la protagonista tarpa “le proprie ali” umane per dimenticare ogni traccia di dolcezza femminile e matura: mozzare i propri arti, piallare le proprie curve, amputare, recidere, spuntare tutto quello che esalta il corpo diventa l’unico modo per sfuggire alla prossima tappa. Diviene dunque inevitabile, per Nina e la sua ombra più torbida, stringersi in un abbraccio perpetuo per sfuggire al tanto temuto cigno nero.