Il colore della libertà: recensione del film prodotto da Spike Lee
Raccontando di un attivista bianco nel movimento per i diritti civili Il colore della libertà cerca di allargare il quadro su una materia incredibilmente attuale. Peccato che il film non sappia che farsene, dell'incredibile storia di Bob Zellner. In sala dal 2 dicembre 2021.
Il colore della libertà, dal 2 dicembre 2021 nelle sale italiane per Notorious Pictures, non è, o almeno prova a non essere, il solito film su razzismo e diritti civili. La regia è di Barry Alexander Brown, nel cast, oltre al protagonista Lucas Till ci sono anche Lucy Hale, Cedric The Entertainer e Brian Dennehy. L’impianto di base è, per la verità, abbastanza prevedibile. Filosofia delle buone intenzioni, una narrazione che si diverte, ma giusto un po’, a giocare con il passato e il presente. L’immagine ariosa, nitida, spaziosa. Per richiamare, se non il sapore della realtà nuda e cruda, quantomeno la suggestione estetica circa quello che gli Stati Uniti parevano essere, al principio degli anni ’60.
L’anomalia del film è di parlare di tensioni razziali e di lotta per l’emancipazione attraverso lo sguardo e il vissuto di un attivista bianco, Bob Zellner. Il rischio è ovviamente di cadere nel trappolone del “salvatore bianco” e relative ipocrisie finto-egualitarie, non è questo il caso. La vita di Bob Zellner concede molto alla curiosità, quello che servirebbe è la capacità di entrare dentro la carne viva delle tensioni e delle contraddizioni del protagonista in marcia verso il cambiamento. Questo non succede al film, ecco, ed è un peccato. Produttore esecutivo, Spike Lee.
Il colore della libertà: da una tesina a Rosa Parks, il passo è breve
Tutto per colpa di una stramaledettissima tesina universitaria. Dall’autobiografia di Bob Zellner. Montgomery, Alabama, primi anni ’60. Bob studia in un college per soli bianchi, figlio di un pastore metodista convertito alla causa liberale e nipote di un nonno suprematista, Brian Henney. Col nonno incappucciato il giovane ingaggerà più di una battaglia man mano che il racconto procede, ci sarebbe materiale per un bell’incendio emotivo ma il film stranamente non raccoglie. Bob e un paio di amici decidono di partecipare a un evento tenuto in città da due colonne dell’attivismo anti razzista come Ralph Abernathy (Cedric The Entertainer) e, soprattutto, Rosa Parks (Sharonne Lainer). Venire, vedere, scrivere tesina. Più facile a dirsi che a farsi.
Ingombrante ma ben risolta è la questione del retaggio umano e storico di Rosa Parks. Alla metà degli anni ’50, in modo pienamente consapevole sottolinea il film, la donna si rifiuta di cedere il posto su un bus segregato di Montgomery, prendendo per il bavero le costrizioni razziste dell’America di ieri. Il colore della libertà ha cura di restituire la profondità e la ricchezza di sfumature di Parks e Abernathy senza consegnarsi al santino. Nella concisione di un doppio cameo che raggiunge un ragionevole compromesso tra i limiti del minutaggio e la finezza della scrittura. La cosa migliore del film.
Bob e i suoi partecipano all’incontro senza farsi troppi problemi, bisognerebbe farlo presentre alla polizia che non si lascia contagiare dall’entusiasmo e cerca di arrestarli. I ragazzi evitano la galera, anche se la stampa locale si avventa sulla storia battezzando il gruppetto Huntingdon (il nome del college) Five. La vita di Zellner cambia, irrimediabilmente. Come si costruisce, a questo punto, una diversa e più compiuta identità civile e politica? Rompendo con tutto quello che ha avuto significato nella vita di prima, e aprendosi al nuovo. Bob Zellner avrà problemi da risolvere, questo è poco ma sicuro. In famiglia, fuori dalla famiglia, con i neri e con i bianchi. Amore che va, amore che viene; dalla fidanzata ufficiale Lucy Hale, che all’inizio sembra appoggiarlo ma poi, non è una sopresa, si arrocca su posizioni di difesa dello status quo, alla possibilità di qualcosa di diverso con Joanne (Lex Scott Davis). Quanto alla gente bianca di lì, c’è una soluzione piuttosto sbrigativa per gestire i cosiddetti “traditori della razza”. Non serve molto, basta un albero e una corda.
Il colore della libertà – Una vita esemplare, che il film non racconta in profondità
Spike Lee veste i panni del produttore esecutivo, e la sua è una presenza rassicurante sul piano dei contenuti. La garanzia di un bollino di integrità, uno status al di sopra di ogni sospetto sul piano artistico-politico che sorveglia il progetto e rassicura sull’onestà delle intenzioni e la profondità della costruzione. Almeno al livello superficiale la doppia promessa è mantenuta. Barry Alexander Brown, ha montato per Spike Lee buona parte dei suoi capolavori, offre un ritratto intimo e collettivo degno di nota, lavorando su una storia di ieri che ovviamente conserva più di una parte di interesse oggi. Il problema è che lo fa in maniera superficiale. Molto, tanto, troppo.
La vita di Bob Zellner è una miniera d’oro e Il colore della libertà ne è consapevole, ma non va molto più in là di così. Cronaca inespressa della carne viva di un uomo bianco. Lacerato, dentro e fuori, dalle contraddizione di essere avanguardia di giustizia e uguaglianza nel cuore di una comunità suprematista. C’è molto da sviscerare nel privato del protagonista. La guerra civile in famiglia tra un nipote progressista, il nonno agli antipodi e un padre che raccoglie da entrambi. Il rapporto con la città bianca, che lo mette all’indice blaterando di purezza e tradimento. La sfiducia dei compagni neri, che non si fidano di un bianco che ficca il naso in faccende che non dovrebbero riguardarlo. Due diverse possibilità di soddisfazione romantica, una accettabile, un’altra sorprendente (per gli standard bigotti dell’epoca).
Tutto questo, ovviamente, al livello delle buone intenzioni. Perché l’esecuzione è altra storia. Il colore della libertà potrebbe permetterselo ma in verità non affonda mai il colpo. Nutre troppa fiducia nella forza autoevidente delle tensioni che lastricano il percorso civile di Bob Zellner, per caricarle di forza esplosiva, autentica e problematica, come invece dovrebbe essere. Il racconto sentimentale è prevedibile, il ritratto di famiglia poco approfondito, la vita nel movimento sbrigativa, il rapporto con la comunità bianca schematico. Il film cerca di farsi bastare la spinta, l’inerzia delle sue notevoli premesse. Non basta, e l’esito di questo compromesso finisce per attenuare la spinta emotiva della narrazione e la credibilità del percorso degli interpreti.