Venezia 74 – Il contagio: recensione del film con Vincenzo Salemme
Gente ai margini confinata nelle periferie di Roma in un racconto in cui a farla da padrone è l'amore, sullo sfondo della malavita, dei disagi e di una città allo scatafascio.
Percorre gli stessi marciapiedi di Caligari, perennemente in bilico tra lo strabordante marciume suburriano e la Grande Bellezza capitolina che sporca gli occhi. Si affaccia, poi, sul bordo più dolce del disastro, raccontando storie di vita, dilemmi di gente comune, poesie di un tempo che è ancora nostro e resta lì, sospeso tra la terra e l’aria, a sussurrare l’essenza di una Roma che vorremmo fosse straniera, inesistente.
E invece è viva, popolata da gente comune, perfettamente impressa sulla psichedelica pellicola diretta da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Il contagio, presentata fuori concorso alla 74ª Mostra del Cinema di Venezia e tratta dall’omonimo libro di Walter Siti.
Un film che si dilegua tra i corridoi della malavita e della disperazione, già battuti più volte dal cinema nostrano, impregnando lo spettatore di schifo e poesia.
La scena si svolge all’interno di una palazzina di borgata la cui rappresentazione è lontana dal sudiciume. L’inquadratura pulita, lineare, la macchina da presa che scende lentamente da un piano all’altro, che si sposta tra i balconi seguendo linee rette, rendendo questo condominio simile a una fiabesca casa delle bambole e chi vi risiede d’altro canto cos’è, se non un burattino nelle mani di un destino già scritto?
Qui, in questo posto che poi in fondo non è così brutto, si agitano le vite di due giovani coppie: Marcello (Vinicio Marchioni) e Chiara (Anna Foglietta), Mauro (Maurizio Tesei) e Simona (Giulia Bevilacqua), quella del boss Carmine (Nuccio Siano), di Attilio (Daniele Parisi) e della madre (Alessandra Costanzo), quella di Flaminia (Lucianna De Falco) e di Bruno (Michele Botrugno). Vite in cui spesso arriva un raggio di flebile felicità, persone che sanno sostenersi a vicenda, comprendersi, ma anche uccidersi.
Una colonna sonora sottile come l’urlo di un violino avvolge fin dall’inizio Il contagio, trascinandoci nella vita dei protagonisti in cui l’ironia e la tragicità sgorgano sincronicamente. Ciò che Matteo Botrugno e Daniele Coluccini mettono in scena è una miscellanea di anime in pena, anime che si trascinano nel marasma della vita, con la smania di tirare a fregare il prossimo giusto per un solo tiro di coca o con l’ansia di sfondare, fare i soldi e andare via, verso quartieri di quella stessa città riservati all’elite, a chi nella vita ce l’ha fatta, come persona magari un po’ meno… È questo il caso di Mauro, spacciatore senza scrupoli abituato a fare due parti in commedia, a rispondere ai comandi e a tenersi stretto ciò che i malaffari gli hanno regalato.
Nel film Il contagio ogni personaggio è un’isola, rimane racchiuso nel proprio dolore e nei propri desideri senza nessuna prospettiva di redenzione.
Nessuno porge loro una mano o si rende conto del disagio; la loro condizione è scontata, un passaggio obbligato. In ognuno di questi individui alberga il fuoco delle borgate, la rassegnazione di farne parte e di non potersi scrostare di dosso il peso (oltre alla mancata volontà nel farlo); il modo di pensare, di parlare, di agire. Loro sono la periferia dell’umanità confinata nelle periferie della città. Sono uomini che hanno fallito e donne che cercano di far rigare dritto, come la Chiara interpretata da una verace Anna Foglietta; donne che si fanno domande, si illudono e gioiscono per futilità, per mascherare la vita inutile in cui si ritrovano a vivere.
Sono personalità a tutto tondo, stagni nei quali immergersi senza riuscire a uscirne vivi. C’è poeticità, però, nelle loro esistenze, conferita dallo sguardo esterno di Walter (Vincenzo Salemme), un professore e scrittore di estrazione borghese che ha una relazione segreta con Marcello. Il rapporto tra i due è uno dei fulcri del racconto, ma non è l’unico. Il personaggio interpretato da Vinicio Marchioni, infatti, è al centro di differenti centri affettivi e da tutti questi si lascia manipolare e spolpare rimanendone poi vittima. Nella rappresentazione della sua morte non può non trasparire un parallelismo biblico ivi ingiustificato, ma che nella scelta dei colori, delle espressioni e nella lentezza dei movimenti non può che suscitare insieme angoscia e pietà.
A tal proposito, non si può non notare nei colori e nelle inquadrature de Il contagio una perfezione stilistica capace di donare un surplus all’intero film.
La fotografia di Davide Manca riesce a catturare quadri perfetti, come le “gesta” d’amore che Walter condivide con Marcello: un punto di fuga che li vede vicini prima di sfiorarsi con le dita, mangiarsi con gli occhi, esplorare ognuno il loro “io”. È in questo frangente che trasuda l’amore nella sua filosofia più leggiadra e pittoresca, fuori dalle etichette dell’amore omosessuale bandite dal nostro popolo. L’amore e basta, con tutto il suo effluvio di tenerezza e sincerità.
A inquadrature impeccabili come questa si aggiungono, in un accavallarsi di emozioni altalenanti, repentini cambi di colore spesso modulati con le alterazioni del suono e lo stato d’animo dei protagonisti. Un amalgama di pigmenti cinematografici che sa coinvolgere lo spettatore sotto ogni punto di vista.
E le parole, poi, quelle rubate tra le righe scritte da Walter Siti e messe in bocca a Vincenzo Salemme per farle risuonare eternamente tra i brandelli della finzione filmica e della coscienza. Sono le parole che disegnano la Roma vera, quella vissuta dai criminali, dai disagiati, dai “morti de’ fame”, la Capitale che non piace mostrare ma che torna a galla sempre, come affresco lucido e imperituro del nostro tempo.
Le parole che non sappiamo dire e che Il contagio sa trascinarci dentro.
Il film è al cinema dal 5 ottobre, distribuito da Notorious Pictures.