Il Cratere: recensione del film di Silvia Luzi e Luca Bellino
Il cratere, al cinema dal 12 aprile 2018 con TFILM e Rai Cinema, è un film che resta impresso nella mente, una storia anti fiabesca, dura e avvilente.
Il Cratere è un film del 2017 diretto da Silvia Luzi e Luca Bellino, presentato all’interno della Settimana Internazionale della Critica di Venezia 74 e al Tokyo International Film Festival durante il quale è stato insignito dello Special Jury Prize.
Tra giostrai e neomelodici si sviluppa il circuito drammatico de Il Cratere, al centro del quale si pongono i protagonisti Sharon e Rosario Caroccia, padre e figlia all’interno di una famiglia di venditori ambulanti che girano fiere e feste di paese con il loro camion, regalando peluche a chi pesca il numero giusto. Una vita gitana e nomade a cui il padre sarebbe ben disposto a rinunciare, un’esistenza umile con cui deve convivere quotidianamente con le sue brutture e le sue paturnie.
Ma Rosario ha deciso che il suo punto di svolta, la sua ricchezza è nel talento di sua figlia Sharon che, oltre avere solo i suoi tredici anni, ha una bellissima voce. Sharon canta da sempre e assieme al padre tenterà di incidere un pezzo neomelodico, con fatica e lacrime, cosa che spingerà Rosario fino all’ossessione per il successo, senza ritorno, e condannando Sharon all’alienazione, in un vortice di ambizione e tormento.
Il Cratere: vita errante e musica neomelodica
Il Cratere è un film sui vinti. Una pellicola che fluttua sulla fame di riscatto di un padre verso una vita di cui non ha potere, non ha controllo. Dal cratere dei sogni infranti è difficile riemergere, quasi impossibile brillare di luce propria. Il film di Silvia Luzi e Luca Bellino è neorealismo convesso, aggettante, come l’inferno dantesco, ogni immagine ha uno spigolo, una prominenza visiva che è magnetica.
Colpisce fin da subito lo spaesamento, il disagio di una vita errabonda, fatta di poco e con poco. Solo peluche da vincere e una camionetta con cui cercare di sbarcare il lunario, poco tempo per lo svago e una famiglia dedita al capo famiglia, padre amorevole e dominante. In questo coacervo circense, tra povertà e velleità di successo, sprigiona il proprio distacco Sharon, nata per brillare ma cresciuta nella strozzatura di un sogno (paterno) che la sovrasta.
La musica è parte integrante del senso drammatico, abbraccia la storia e la realtà di Sharon, ed è un patrimonio culturale e punto nodale di un universo territoriale che produce e ascolta con fierezza un genere ben preciso, il neomelodico, ereditato dalla tradizione della canzone popolare napoletana.
Il Cratere: un film che resta impresso nella mente
La cinepresa indugia sui volti, sui profili dei protagonisti, ed è famelica, nervosa, ossessiva nel voler raccontare ciò che le parole non arrivano ad esprimere, ovvero un vuoto, un abisso siderale che divide padre e figlia, che parlano la stessa lingua ma si circondano di silenzi diversi. La macchina da presa svincola dalla narrazione pulita, fluida e si concentra sullo visione, sul realismo. Un film principalmente girato in primissimo piano, che sfoca, sporca molto spesso il contesto, tagliando anche i corpi, i gesti e gli spazi in cui le azioni avvengono.
Il film comincia con un’immagine molto emblematica in cui Sharon ripete ad alta voce Il Verismo di Verga e la sua poetica, ed è provvidenziale che esso accada, giacché la narrazione è determinata da una grande qualità: quella di osservare con lucidità quello che avviene, senza pietismi. E non è affatto una forzatura, questa traslazione verista in un girato che è spiazzante ma in cui non c’è e non si percepisce alcuna velata opinione da parte di chi dirige.
Il Cratere è un film che resta impresso nella mente, una storia anti fiabesca, dura e avvilente. Sharon dopo tutto è solo una ragazzina che ha la (s)fortuna di saper cantare, pur volendo e desiderando ardentemente vivere i suoi anni, così acerbi e spensierati, tra giochi da piazzale e amiche del cuore. Sharon però sa voler bene, e cerca in tutti i modi di assecondare il padre, desiderando tanto renderlo fiero quanto non scomparire dietro quel desiderio.
Una storia di un amore triste come quella di Zampanò e Gelsomina, lui con il suo carattere egoriferito e burbero e lei innocente, sopraffatta, che rivendica una sua voce, un suo posto nel mondo. Rosario e Sharon sono così, ognuno di loro rivendica il proprio diritto di essere felice, chi nel denaro e chi nel torpore della propria vita appena cominciata, che deve in entrambi casi fare i conti con la disillusione di tutti i giorni, il disincanto che orbita e si dipana ad ogni giro di giostra, tra nomadi e circensi.