Il Gattopardo: recensione del film di Luchino Visconti

L'adattamento di Luchino Visconti del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è un fulgido esempio di come sia possibile trarre da un capolavoro della letteratura, un capolavoro del cinema.

Il Gattopardo è l’ottavo lungometraggio di Luchino Visconti e segna il ritorno dell’autore sia al tema risorgimentale, che a quello della rappresentazione della Sicilia.

La pellicola, che vide la luce degli schermi nel 1963, è un fedele adattamento del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato, sotto la supervisione di Bassani, da Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dello scrittore. La storia è ambientata nel periodo dello sbarco in Sicilia di Garibaldi (1860) e segue le vicende di una famiglia dell’aristocrazia palermitana e del suo patriarca, Don Fabrizio Corbera, principe di Salina (Burt Lancaster).

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Il Gattopardo Cinematographe.it

Il principe asseconda la volontà del nipote Tancredi Falconeri (Alain Delon), di partecipare ai moti garibaldini, combattendo dalla parte delle camicie rosse. Si assicura così la possibilità per la propria famiglia di far parte dell’élite anche nel nascente Regno d’Italia. I conseguenti cambiamenti di gerarchie e l’avvento al potere di una borghesia fatta di parvenu, si configurano solo come mutazioni superficiali, nel loro sostituire una monarchia (quella Borbonica) con un’altra (quella dei Savoia). Proprio tali eventi sembrano acuire il senso di decadenza e di fine imminente che adombrano ogni gesto e pensiero di Don Fabrizio.

Il Gattopardo fra letteratura e cinema

Se nel caso di un altro celebre adattamento della letteratura siciliana – I Malavoglia di Verga con il film La Terra trema (1948) – Visconti si era preso parecchie libertà, tanto da non sentire neanche la necessità di mantenere il titolo originale, con Il Gattopardo invece il discorso è diverso. Il film segue in maniera filologica il romanzo. Le modifiche ovviamente ci sono, ma per lo più sono determinate da esigenze di messa in scena. Nel caso della quasi totale eliminazione del capitolo della vacanza di don Pirrone, il prete di famiglia dei Salina, assistiamo addirittura a un’operazione di ricostruzione filologica della volontà autoriale, in quanto pare che lo stesso Tomasi di Lampedusa avrebbe voluto eliminare quel capitolo, ma la morte improvvisa glielo impedì.

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Eppure altre piccole modifiche, come il ritorno in varie parti del film, a guisa di leitmotiv, della frase di Tancredi sulla necessità di cambiare tutto per mantenere lo status quo, l’inserimento del rumore della fucilazione dei garibaldini dissidenti dopo il ballo nobiliare o l’ampliamento della scena del ballo stesso, che nel romanzo occupa poche pagine, ma nel film costituisce buona parte del terzo atto, delineano una personalità autonoma della pellicola.
Quest’ultima infatti pur riproducendo il racconto in maniera fedele, entra in dialogo dialettico con l’opera dello scrittore siciliano. Emergono tutto il vissuto e l’estetica viscontiana e si sovrappongono a quelle di Tomasi di Lampedusa – che con il regista condivideva un lignaggio aristocratico. Il film è un canto di morte di un’intera classe sociale e, come il romanzo, dipinge il quadro di un mondo ormai scomparso, fatto di costumi raffinati e ambienti sfarzosi. Laddove però il testo di Tomasi di Lampedusa prende una piega fatalista che, sottolineando l’immutabilità delle dinamiche del potere, in qualche maniera normalizza una sorta di determinismo storico, col risultato di smorzare l’afflato tragico della vicenda, il film di Visconti invece ne abbraccia completamente l’atmosfera di Götterdämmerung wagneriana.

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Proprio per questo motivo la scena del ballo assume un ruolo centrale nell’opera viscontiana e il regista elimina gli ultimi tre capitoli del romanzo, facendo coincidere la fine del racconto con quella del ballo. Si tratta appunto dell’ultima danza prima della morte degli antichi dei – così descrive la propria classe di appartenenza Don Fabrizio. Con la loro morte, muore un mondo. Non è possibile, secondo la visione viscontiana, un dopo, come quello raccontato nel romanzo. Tutti i trasformismi, le piccole meschinità e le trivialità delle dinamiche del potere, ma anche gli ideali patriottici e le speranze di rinnovamento civico, si diluiscono in questo ultimo inganno di grandezza, per poi essere uccisi, fuori campo, con la fucilazione dei garibaldini, traditi da quello stesso Stato, per creare il quale avevano combattuto. Visconti in un colpo solo chiude i conti con il proprio retaggio aristocratico e, da marxista quale era, anche con l’idea del Risorgimento italiano, inteso come una rivoluzione fallita. Quest’ultima fu una rivoluzione di matrice borghese e come tale destinata semplicemente a soppiantare, a lungo andare, la classe sociale degli aristocratici con quella dei burocrati, dei mezzadri e degli affaristi. Il cambiamento delle condizioni di vita di quel popolo inquadrato sempre in scene di massa, sempre succube delle decisioni altrui, segnato da un’identità antropologica inconciliabile con quella dei nobili – come spiegato nell’unico dialogo inserito della vacanza di don Pirrone – deve ancora venire. E potrà venire solo con la presa di coscienza, da parte di quel popolo, della propria condizione di classe oppressa, sembra sottilmente sottintendere il regista meneghino, attraverso un fine gioco di non detti.

Il Gattopardo: valutazione e conclusione

Il film è fotografato magistralmente da Giuseppe Rotunno. La colonna sonora di Nino Rota è improntata a una certa grandeur orchestrale e recupera un valzer di Verdi, il Valzer brillante, reso famoso proprio dalla scena del ballo. Visconti si affida a una regia barocca fatta di suadenti movimenti di macchina e campi lunghi che descrivono il paesaggio siciliano. Come già aveva fatto in Senso (1954), l’autore utilizza una serie di pittori ottocenteschi, sia italiani, fra cui Boldini, Lega e Canella, che francesi, come Manet, per costruire le immagini del suo Ottocento. Gli attori, da Burt Lancaster a Alain Delon e Claudia Cardinale, danno tutti il meglio di sé, restituendo un’interpretazione melodrammatica intensa, ma allo stesso tempo misurata e priva di sbavature. Insomma Il Gattopardo rimane ancora oggi un capolavoro assoluto del cinema italiano.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

5