Il labirinto del fauno: recensione
È il 1944, è la Spagna di Francisco Franco e la guerra ha stravolto l’ordine naturale della società: in un paesino situato in mezzo ai boschi le truppe di Franco, guidate dal capitano Vidal, creano un avamposto militare che tiene alla larga i ribelli dalle loro case, esattamente come Ofelia, figlia acquisita del capitano, è tenuta lontano dal suo mondo: il mondo sotterraneo.
L’incipit del film ci fornisce tutte le informazioni necessarie a delineare le caratteristiche di questa storia: Ofelia è a terra, sanguinante e con la vita che le sgocciola via.
Ci appare quindi subito chiara la cifra stilistica di Del Toro, cruda e viscerale, che non risparmia buonismi e happy ending alla portata di tutti. Nella versione italiana è il fu Tonino Accolla (famoso soprattutto per aver dato voce a Homer Simpson) a prendere il ruolo di voce narrante che – in pieno stile cantastorie – disegna il background favolistico della vicenda, ponendoci l’esistenza di un mondo magico e fatato. Il film ci porta subito ad essere guardinghi ed analitici, in quanto l’ottica privilegiata di Ofelia potrebbe assottigliare a proprio favore il confine tra realtà e magia, ma il forte finalismo narrativo che esula dal suo controllo ci induce a credere che non parliamo di due realtà separate. Il mondo magico e il mondo reale appare intessuto a doppio filo attorno all’immagine della bambina, principessa esule in cerca del suo mondo. Se di finalismo narrativo non si parlasse, certi snodi narrativi apparrebbero forzati e non plausibili – come il fatto che Vidal riesca a seguire e ad uccidere Ofelia con una dose da cavallo di calmante in circolo – ma un’attenta analisi ci da modo di riconoscere un preciso filo narrativo che fa delle morti e delle apparenti sconfitte dei tasselli preordinati.
Sebbene il focus narrativo graviti attorno Ofelia, è però il capitano Vidal il personaggio più costruito, tanto spietato e arrogante da esigere una caratterizzazione quasi stereotipata: ossessionato dal proprio orologio da taschino (àncora psicologica alla realtà che rinsalda le sue convinzioni); talmente pieno di sé da immaginare di avere potere anche sulla morte tagliando la gola al suo riflesso sullo specchio; estremamente convinto infine di avere il potere di generare solo prole maschile. Risulta essere un vero e proprio agente della razionalità. La favola di Ofelia arricchisce ulteriormente il ruolo negativo di Vidal, paragonandolo ad un rovo di spine che fa da guardia ad una rara e magica rosa blu.
Il labirinto del fauno ci si presenta come una sfida, ci pone un mondo crudo, senza pietà come può essere quello che subisce la Seconda Guerra Mondiale, al cui interno vaga una bambina che si avvicina molto alla Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Per quanto sia facile razionalizzare e credere che le incursioni fantastiche siano solo frutto della mente di Ofelia, la storia ti spinge a liberarti da qualsiasi gabbia analitica, e a credere nel fantastico. Ma la vera chicca la saggiamo solo quando il patto di sospensione di incredulità – in merito leggere riguardo il suspension of disbelief di Coleridge – viene sconvolto: una semplice scelta combinatoria applicata al momento del montaggio chiude sul finale entrambe le porte di senso. Sta a noi scegliere se continuare a credere, o rimanere razionali.
Il labirinto del fauno continua la trilogia iniziata nel 2001 con La spina del diavolo, svettando nella classifica spagnola e contribuendo a confermare la fama di Guillermo Del Toro, regista a cui è stata affidato il secondo filone tolkeniano de Lo Hobbit.