Il mese degli dei: recensione dell’anime Netflix
Un anno dopo aver perso la madre, la 12enne Kanna scopre che deve attraversare il Giappone per raggiungere il raduno annuale degli dei a Izumo. Con lei, lo spirito guida Shiro e il demonietto Yasha.
L’unione di anime, viaggio di un eroe preadolescente e incontro con animali fantastici o mitologici fa subito venire in mente la filmografia di Hayao Miyazaki, da Il mio vicino Totoro a La città incantata. È la croce e la delizia di un certo tipo di operazioni, destinate a non reggere il confronto con l’inarrivabile modello di riferimento ma assieme qua e là capaci di ricreare – sovente senza alcun tipo di presunzione, anzi con una certa percepibile umiltà di intenti – quel tipo di atmosfera nostalgica e irreale.
Il mese degli dei di Tanaka Shirai si affaccia alla distribuzione Netflix dopo un fugace passaggio solo nelle sale giapponesi, dopo essere passato per un crowdfunding iniziato nel 2019. È una storia di tormenti e sensi di colpa, vissuti attraverso gli occhi della giovanissima Kanna, dodicenne problematica che ha perso la sua passione per la corsa dopo la morte di sua madre. Non ci sono abbellimenti particolari, si va dritti al punto fin dai primi minuti; un espediente che provoca in chi guarda un immediato desiderio di comprensione delle emozioni in gioco.
Il mese degli dei: la lunga strada verso Izumo
Kanna aveva appena 11 anni quando ha perso sua mamma in un incidente di cui si sente responsabile, e ora esita a fare l’unica cosa per cui sua madre e lei condividevano l’amore: correre. Poi scopre che c’era un intero lato a lei sconosciuto della genitrice, e se non segue le sue orme il suo mondo non vedrà più la pace per un altro anno. Tuttavia, se lo fa, potrebbe rivederla. C’è l’avventura, e c’è il soprannaturale: Kanna nasce infatti come discendente degli dei. La sua famiglia ha la missione di consegnare offerte da tutto il Giappone al raduno degli dei a Izumo, che si svolge a ottobre.
Per portare a termine questa missione si farà aiutare da uno spirito guida, che ha posseduto il corpo del suo coniglio domestico Shiro, e da Yasha, un demonietto inizialmente molto poco amichevole. Il mese degli dei segue il pellegrinaggio del trio, che lungo il percorso visita diversi santuari e raccoglie offerte dalle varie divinità che vi risiedono. Tutto lineare, non fosse per la forza minacciosa e nebulosa che a intervalli regolari appare dietro di loro, desiderosa di avvolgere la nostra giovane eroina.
Un film sul trauma infantile, in abito fantasy
La natura spensierata di Kanna e la sua capacità di trasmettere un’intera e potente gamma di sentimenti – a volte solo con la piega delle sopracciglia – sono i veri punti di forza dell’operazione. Kanna scioglie il cuore e rende facile per il pubblico simpatizzare con la sua situazione. Così, mentre il film di Tanaka Shirai segue una dimensione smaccatamente fantasy, il tema del dolore e quello del trauma si diffondono in tutta la storia. Siamo di fronte a un caso di studio sulla perdita, che gioca con l’idea di smantellamento del senso di colpa non sfruttato e non affrontato.
Ma Il mese degli dei è un’opera che metaforizza anche sul contemporaneo: il cattivo della vicenda altro non è che un falso dio che aspira a diventare una divinità delle calamità, dando piena forma a sensazioni e sentimenti negativi quali l’apatia, l’inciviltà, l’indifferenza e la mancanza di pietà. Argomenti degni di totale attenzione, forse da bilanciare con una resa estetica di non primissima qualità, o col fatto che alcuni ripetuti chiarimenti rasentino l’ossessione. Ma l’approccio di Shirai è lodevole, con l’evidente risultato di un racconto sincero e sentito su come affrontare le sfide più difficili della vita.