Il mio giardino persiano: recensione del film di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha

Una donna, un uomo, una notte d'amore e felicità nell'Iran patriarcale e misogino ai tempi di Mahsa Amini.

Si può essere politici in molti modi e Il mio giardino persiano, regia di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha (anche sceneggiatori), in sala dal 23 gennaio 2025 per Academy Two a un anno dal passaggio in Concorso alla Berlinale 2024, ha scelto il più onesto e il più tragico. Il più onesto, perché la dimensione politica delle scelte dei protagonisti, spogliate di qualsiasi accenno retorico, è veicolata da una quotidianità spicciola, tra realizzazione di sé e tabù esteriori. Il più tragico, perché l’insopprimibile bisogno di libertà, felicità e realizzazione della coppia di protagonisti, non importa quanto effimero, è in fondo niente più che una chimera. Con Lily Farhadpour e Esmail Mehrabi, una finzione gioiosamente e dolorosamente vera.

Il mio giardino persiano: un uomo, una donna e il diritto alla felicità

Il mio giardino persiano cinematographe.it

Mahin (Lily Farhadpour) è una donna, sola e di una certa età. Una combinazione di fattori che nella Repubblica Islamica dell’Iran difficilmente porta a qualcosa di buono. Mahin parla con la figlia all’estero solo su Face Time, perché non le è più concesso di espatriare, data l’età. Le amiche la vengono a trovare a Teheran di quando in quando e vorrebbero che si risposasse. L’assurdità della situazione, che Il mio giardino persiano cattura con sottile ironia e sentita partecipazione, è che superficialmente Mahin e il mondo di fuori concordano: è arrivato il momento che si trovi qualcuno. Ma se, nel soffocante dettato patriarcale della società iraniana, la solitudine della donna è una mortificazione della morale che solo il matrimonio può sanare – con una chiara definizione dei ruoli e delle gerarchie – Mahin immagina le cose in maniera diametralmente opposta. L’uomo è piacere, è una boccata d’ossigeno, è uno schiaffo agli anni che passano, è libertà.

Il mio giardino persiano è la storia di Mahin impegnata a conquistarsi il diritto alla felicità, non importa quanto fragile o passeggera. Per raccontarla lavora brutalmente sui toni, alternando risate e dolcezza a parentesi drammatiche forti. Lo spartiacque, sentimentale e narrativo, è l’incontro con Faramarz (Esmail Mehrabi). Tassista, ha più o meno la stessa età di Mahin, è solo anche lui, divorziato mentre la donna è vedova. Come il marito di lei è stato nell’esercito e fino all’incontro con la protagonista non pensava ci fosse ancora qualcosa per lui, all’orizzonte. E invece si trovano. È Mahin a trascinarlo nella rete, a incantarlo con le sue timide promesse di complicità e calore umano – una delle più sottili ma audaci rivoluzioni di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha è costruire la storia sui bisogni della donna e lasciarla sempre al comando – per regalarsi una notte insieme, la più indimenticabile nella vita di entrambi (ma qui bisogna andare cauti con gli spoiler).

Nella bella casa di Mahin, tra un proibitissimo bicchiere di vino in giardino, un ballo impacciato, una vicina impicciona, una bella canzone e una torta – il titolo inglese del film è My Favourite Cake – esplode la lotta di un uomo e una donna contro l’odiosa realtà che opprime la speranza. Il punto, con Il mio giardino persiano, non è illudere e confondere; la realtà vincerà la guerra e forse anche la battaglia. Più interessante è mostrarci che opporsi è possibile e anche necessario. E che la felicità dura poco, ma non è una buona scusa.

L’intimo è al 100% politica

Il mio giardino persiano cinematographe.it

A Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha viene impedito di presenziare alla Berlinale – dove il film raccoglie consensi ma nessun premio – e non è questione di età, come nel caso del rifiuto opposto alle richieste di espatrio di Mahin per incontrare la figlia lontana. Le autorità non tollerano, di un film girato lontano da occhi indiscreti perché non si può fare altrimenti, la (neanche troppo) sottile critica alla politica repressiva del regime e l’attacco frontale, senza sfumature o mezzi termini, alla spaventosa misoginia della società iraniana. Il mio giardino persiano è un film sulla solitudine, sulla vecchiaia, sulla felicità, sulla natura transitoria delle cose della vita, belle o brutte, sulla necessità di aggrapparsi al momento e di viverlo fino in fondo. Indirettamente ma non troppo, è una riflessione sull’intrinseco potenziale politico della quotidianità. Con una sola – marginale per minutaggio ma importante narrativamente – eccezione, niente di quello che Mahin fa o pensa va inquadrato nella logica di un esplicito attivismo politico.

Mahin e Faramarz vogliono vivere la loro vita alle loro condizioni. Dal momento che il tirannico (e meschino) regime glielo impedisce, la solitaria notturna fuga verso l’amore e la libertà dello spirito assume una valenza incendiaria, rivoluzionaria. È la virtù più sottile e più commovente di un film sottile e commovente. Ricordarci, è un utile promemoria, che il personale, il sentimentale, l’intimo insomma, è politico. A questo punto andrebbe precisato che l’ambiguità e la sottigliezza valgono anche come copertura assicurativa (sulla vita e la libertà) per gli autori, perché un attacco diretto li esporrebbe a rischi seri, in un contesto in cui espressioni come stato di diritto e incolumità psicofisica vengono interpretati con inquietante flessibilità. Le cronache italo-iraniane d’inizio 2025 sono lì a ricordarcelo.

Il cinema è un’arte allusiva, odia l’assoluta chiarezza e ha bisogno dello spettatore per riempire i vuoti; occorre ricordarsene, avvicinandosi a Il mio giardino persiano. Dolce (a tratti anche eccessivamente, è forse il suo unico limite) e doloroso, capace di cambiare faccia con sorprendente rapidità, il film ha il pregio di giocare con le convenzioni non solo quando fa politica fingendo di interessarsi a altro, ma anche quando si spoglia delle cifre estetiche del cinema d’autore o politico/civile. Rinunciando all’energia nervosa della camera a mano o a una messa in scena barocca in favore di un approccio più sobrio nel costruire la scena, inserire i personaggi e definirne i rapporti. Secondo molte voci autorevoli, anche italiane, è possibile sia stata l’asciuttezza formale del film a pregiudicarne, a Berlino, la chanche di un premio. Il mio giardino persiano però cerca ricompense d’altro genere.

Il mio giardino persiano: valutazione e conclusione

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L’eccezione alla regola del film è la foto sopra. Mahin protegge una giovane donna dalle interferenze (chiamiamole così) della famigerata polizia morale – la stessa responsabile della tragica morte di Mahsa Amini, contemporanea alle riprese – perché Il mio giardino persiano ci tiene a ricordare allo spettatore, mettendo in un cantuccio la sottigliezza, che l’esistenza delle persone ha un ineludibile potenziale politico. Oltre la riflessione su vita, morte, felicità, transitorietà delle cose, solitudine e vecchiaia, oltre la forza dolce e struggente nelle interpretazioni dei bravi e maledettamente empatici Lily Farhadpour e Esmail Mehrabi, la forza di Il mio giardino persiano è più elementare, va dritta al cuore delle cose. Non è importante cosa rappresenti, e come. Il fatto che sia lì a rappresentare è più che sufficiente.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.2