Il Paese del sesso selvaggio (The man from the deep river): recensione
C’è un genere cinematografico andato “perduto” che sta tornando in voga nell’ultimo periodo, un genere che mischia l’orrore, lo splatter, la violenza, l’avventura e l’erotico.
I registi che si sono cimentati nell’affrontare l’argomento hanno avuto principalmente successo all’estero, per poi diventare famosi in tutto il mondo per le sfide affrontate nel dirigere le pellicole e per il coraggio nel presentarle all’ufficio censura dell’epoca.
Il Paese del sesso selvaggio, capostipite del cinema Cannibal (nonostante all’interno della pellicola sia presente una sola scena di cannibalismo) e diretto da Umberto Lenzi, è divenuto famoso in tutto il mondo per il suo mix di avventura e documentario lanciando, con un’unica piccola scena, un genere che ha fatto storia.
Un fotografo inglese giunge in Thailandia per un servizio fotografico sulla vita locale. Una sera, durante una breve colluttazione, uccide per legittima difesa un uomo e fugge via per scappare alla polizia locale. Addentratosi nella giungla per continuare il suo servizio, farà presto la conoscenza di una tribù nativa del posto…
Il Paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi è in realtà da catalogare nei film d’avventura; le splendide riprese degli scorci thailandesi fotografati prevalentemente con luce naturale dal direttore della fotografia Riccardo Pallottini conferiscono alla pellicola uno stampo documentaristico che crea atmosfera e catapulta lo spettatore all’interno di questo inferno verde. Il soggetto scritto da Emmanuelle Arsan (l’inventrice dell’omonima eroina letteraria e cinematografica) e la sceneggiatura firmata da Francesco Barilli e Massimo D’Avack portano in scena i personaggi di Bradley e Maraya interpretati da Ivan Rassimov e Ma Ma Lay, elementi che fungono da fil rouge per accompagnare lo spettatore attraverso la scoperta di una natura pericolosa e primitiva. La recitazione dei due protagonista è nella media per il prodotto di genere di cui fa parte, anche se le battute sono ridotte all’osso e hanno una funzione minima per la narrazione, mentre funzionano molto di più le espressioni facciali di tutti i membri del cast (contando che gli indigeni parlano una lingua praticamente sconosciuta e quasi incomprensibile) per sottolineare determinati e importanti passaggi all’interno della pellicola.
Come scritto in precedenza, Il Paese del sesso selvaggio presenta esclusivamente una scena di cannibalismo, molto breve ma sicuramente efficace, senza dispendio di particolari effetti gore o splatter: Umberto Lenzi lavora con la macchina da presa e con le inquadrature proiettando l’orrore all’interno delle menti degli spettatori senza mostrare troppo. Le scene più cruente, invece, vanno attribuite alla violenza gratuita sugli animali come coccodrilli, scimmie, serpenti e altra fauna territoriale: le uccisioni, decapitazioni, squartamenti (seppur alcune scene sembrino fittizie) fanno parte di una cultura primitiva tangibile, usanze rituali o semplicemente quotidiane attuate da popoli che abbracciano ancora le antiche tradizioni ma potrebbero urtare la sensibilità degli spettatori più impressionabili.
Lenzi, con un’escamotage narrativo, pone il protagonista davanti ad un viaggio spirituale e fisico che gli farà abbandonare la vita londinese tanto amata all’inizio del film per abbracciare una realtà ben più profonda, spirituale e naturale.
Seppur datato 1972, Il paese del sesso selvaggio rimane ancora oggi un prodotto godibile per chi cerca un buon film avventuroso dallo stampo documentaristico, senza troppe pretese e con pochi brividi ma molte scene impressionanti perché non ricreate in studio ma estremamente reali.