Il patto dei lupi: recensione del film con Vincent Cassel
Tecnicamente valido ma inutilmente longevo, Il Patto dei Lupi può tuttavia contare su una direzione efficace da parte di Christophe Gans e un cast d'insieme ben affiatato.
Ispirato alla storia vera legata alla Bestia del Géuvadan, che terrorizzò l’area centro-meridionale della Francia a metà del 18°secolo, Il patto dei lupi tenta di impiegare numerosi stili, metodi di ripresa e generi cinematografici per spettacolarizzare l’accaduto. Si introduce il personaggio di Grégoire de Fronsac (Samuel Le Bihan), naturalista libertino, inviato da Re Luigi XV nel Géuvadan per far luce su una misteriosa bestia che da tempo semina terrore e miete vittime, perlopiù donne e bambini. Le indagini subiranno degli imprevisti dovuti all’ambigua casta altolocata del luogo e de Fronsac farà la conoscenza di Jean-François de Morangias (Vincent Cassel), un cacciatore e viaggiatore tornato da una battuta di caccia estrema in Africa.
Un mix di generi insolito
Le premesse ci introducono in uno scenario denso di mistero, che ricalca le orme de Il Mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton con un tocco di Jack Lo Squartatore come contorno alle vicende rappresentate. Christophe Gans ricopre il ruolo più difficile all’interno di questa bizzarra produzione francese: dirigere con grande senso del ritmo una pellicola dispersiva nei toni e oltremodo citazionista. La bestia diviene una protagonista assoluta che agisce in maniera discreta, non ha bisogno di farsi notare. La macchina da presa agisce per conto dell’animale feroce, centellinando i momenti di sana tensione che si possono generare con la sua apparizione.
La componente horror de Il patto dei lupi si aggiunge dentro uno schema narrativo influenzato da altri generi; i combattimenti cappa e spada tendono a prevalere sulle violente uccisioni ad opera della bestia, con un protagonista votato all’azione e agli scontri fisici estremi, anche quando si trova in netta inferiorità numerica. Ad aiutarlo in questa avventura ci sarà l’irochese Mani (Mark Dacascos), insieme dovranno catturare ed imbalsamare l’animale. La spalla dell’interprete principale svolge un ruolo fin troppo basilare: va potenziando le fasi più movimentate del titolo e contribuisce a deviare la storia verso il puro divertissement barocco e frivolo con contaminazioni del cinema di John Woo.
Christophe Gans: un regista che si concentra più sulla confezione e meno sugli attori
Pertanto non rappresenta una difficoltà per Gans che mantiene salde le redini della pellicola, a livello puramente visivo, imprimendo con decisione una conduzione pulita, asciutta e senza voli pindarici esagerati che rischiano di rendere la confezione grottesca. Il suo intento è quello di valorizzare il reparto costumi e l’apparato scenografico messo in mostra per catapultarci in un contesto storico ottimamente ricostruito. Il cacciatore è una figura interessante sulla quale soffermarsi; si nota il tentativo di affidare a Le Bihan un ruolo di guida, che svela mano a mano gli intrighi e i sotterfugi alimentati nell’antica provincia francese del Géuvadan.
Vincent Cassel e Monica Bellucci, nella parte della seducente Sylvia, cercano di dare forma e sostanza ad una sceneggiatura che, nella seconda metà della pellicola, si indebolisce e viene messa da parte a favore di una perfetta riuscita tecnica. Il fatto che Gans, per sua stessa ammissione, non sia un “regista di attori” e sia invece interessato più all’involucro che caratterizza il film che alle performance interpretative, ha creato qualche difficoltà agli attori che non hanno trovato in lui un interlocutore con cui approfondire il loro lavoro. Questo approccio ha garantito però la piena libertà creativa sul fronte delle interazioni fra i personaggi, con dei risultati mai del tutto disastrosi nella resa finale.
La creatura si mostra in tutto il suo (discutibile) splendore
Per quanto riguarda la Bestia del Géuvadan, c’è da riservarle una considerazione a parte: i thriller-horror con esseri mostruosi pronti a seminare panico, confusione e terrore nella mente dei malcapitati (vedasi Alien del 1979 o Predator del 1987), si sono sempre basati sul gioco del “vedo-non vedo”, ma anche su un trucco eccelso ed effetti speciali artigianali di tutto rispetto per rendere memorabile l’iconica figura minacciosa. Una volta rivelati, la fotografia operava in maniera certosina con l’obiettivo di imprimere nella mente dello spettatore la silhouette e i dettagli scabri dei loro volti.
Non si può dire la stessa cosa de Il patto dei lupi; una minaccia essenziale al fine di perfezionare l’atmosfera orrifica nello sfondo, la Bestia, viene mostrata con un pesante intervento in fase di post-produzione all’inizio del terzo atto. La computer grafica impiegata al massimo senza tener conto del fattore spavento, rischia di sminuire totalmente l’ottimo lavoro di Gans nel nascondere la creatura e tenerla fuori fuoco e dal quadro visivo per gran parte del minutaggio. L’elemento di spicco che dovrebbe caratterizzare un prodotto particolare e di immediata fruibilità non brilla per inventiva quando i riflettori calano su di esso. Male integrato con gli attori in scena, perde di efficacia quando si tratta di spaventare genuinamente. Un’occasione sfortunatamente sprecata.