Il posto delle fragole: recensione del film di Ingmar Bergman
Orso d'Oro a Berlino e Premio della critica a Venezia, entra nell’archivio Amazon Prime il film che ha imposto sulla scena cinematografica internazionale Ingmar Bergman.
“I nostri rapporti con il prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e ad una sterile critica del suo comportamento”. Così inizia Il posto delle fragole, capolavoro unanimemente riconosciuto, consacrazione di una delle personalità più eminenti della storia cinematografica mondiale e film premiato ovunque: Orso d’Oro a Berlino, Premio della critica a Venezia, Golden Globe per il Miglior Film Straniero, film dell’anno per il National Board Review.
La vicenda è, in prima battuta, esilissima e semplicissima: si narra di un vecchio e illustre professore che si reca a Lund per ritirare un prestigioso premio accademico. Il resto, che sarebbe contorno e optional, diventa però il vero focus del racconto, perché a seguito di un terribile incubo il protagonista sceglie l’auto al posto dell’aereo, incontrando lungo il tragitto persone e luoghi che lo porteranno ad una profonda riflessione su se stesso e sugli errori commessi nel corso della sua vita.
Il posto delle fragole: alla ricerca del tempo perduto
Il luogo in cui recarsi, anzitutto, è quello “delle fragole”, che in Svezia rappresentano a pieno la primavera, per simboleggiare l’innocenza e l’ingenuità della prima età. La fragola, per il dottor Isak Borg, rappresenta una sorta di madeleine proustiana, un oggetto che evoca ricordi del passato non necessariamente piacevoli. I sogni e le reminescenze di Borg, infatti, sono tutt’altro che accomodanti: ci sono orologi senza lancette, uomini senza volto che si dissolvono, bare con all’interno la sua stessa salma.
E soprattutto ci sono i frammenti di un passato in cui si intrecciano svariate circostanze umane, riguardanti la casa di campagna in cui è cresciuto, gli amori perduti e gli affetti trascurati (rappresentati dalla madre ultranovantenne). Forse anche tutto questo è irreale, un’espressione onirica se non addirittura un presagio di morte imminente. Il posto delle fragole medita sull’esistenza, sulla finitezza dell’essere umano e più in generale sul tempo e sui cambiamenti che genera in noi.
Il posto delle fragole: la liberazione dello spirito
Uno degli aspetti spesso trascurati del film di Bergman è che per la maggior parte è stato girato a contatto con la vera campagna svedese, in modo che i suoi personaggi – il professor Borg e sua nuora Marianne, anzitutto, ma anche il gruppo di ragazzi incrociati nel cammino – attraversino un mondo naturale che sembra in contrasto con la loro stessa impermanenza (esistono davvero? O sono solo frutto della memoria dell’anziano?), la cui bellezza sembra in qualche modo istruirli, più di quanto possano fare le parole del dottore.
Anche perché Borg, a ben guardare, ha poco da insegnare: la sua introspezione lo porta essenzialmente al pentimento per le occasioni perdute, alla presa di coscienza sull’indifferenza e sulle maschere indossate lungo tutta la sua esistenza per celare le proprie passioni e i propri dolori. La punizione, per aver fatto sparire qualunque emozione/sensazione – tramandando tra l’altro questo modus vivendi anche a suo figlio – è la solitudine, senza clemenza, che complica il perseguimento della tanto agognata catarsi spirituale.
Il posto delle fragole: le immagini allo specchio
Non v’è dubbio che Bergman – che nel 1957 non aveva ancora 40 anni – parli primariamente del rapporto complesso con la sua famiglia e della nostalgia per la sua giovinezza, cercando redenzione e riconciliazione: “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia. Giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose, e abito sempre nel mio sogno. Di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà”. Il posto delle fragole, che causò all’autore un esaurimento nervoso, è dunque più di ogni altra cosa una seduta di psicanalisi, di auto-terapia.
In esso possiamo trovare Freud e il sopraccitato Proust, fino a Kafka e alla sua personale riflessione sulla metamorfosi e sullo smarrimento. Su tutto, però, c’è la finitezza dell’essere umano (“Sono morto, pur essendo vivo”), traslata nella performance trascendente di Victor Sjöström e nel suo sguardo via via sempre più placidamente colpevole. Reo confesso per evidenza ma auto-assolutorio per sopravvivenza, come ognuno è portato umanamente ad essere. E ciò che rende eterno e inimitabile Il posto delle fragole è proprio la vicinanza a ciascuno di noi, come se ci guardassimo in uno specchio senza poter distogliere lo sguardo.