Il posto: recensione del film di Gianluca Vassallo
Un'opera del tutto originale che, mescolando finzione e realtà, attori professionisti e non, rende omaggio alla DEGW, azienda leader nel settore del workplace, in occasione dei suoi 50 anni
La sottile linea di demarcazione che separa la finzione dal cinema documentario viene spesso valicata per una proposta composita, che passa da entrambi gli approcci autoriali; ne è un perfetto esempio Il posto, opera diretta da Gianluca Vassallo (Volevo solo sapere come stai, James vs Wines) e realizzata in occasione del 50° anniversario di DEGW, storica società di progettazione, specializzata in luoghi di lavoro. Lombardini22, gruppo leader nel campo dell’architettura nostrana, a cui DEGW fa capo, è da sempre molto attivo in ambito culturale e, per l’occasione, ha deciso di contattare il regista col fine di avviare un progetto volto alla ricerca di una maggiore interdisciplinarità.
L’autore, chiamato a dirigere un documentario che riuscisse a raccontare i primi 50 anni di storia dell’azienda, ha voluto ricalibrare il tiro e raccontare il posto, inteso come spazio, nella sua intima relazione con l’individuo, attraverso una dissimulante ricostruzione della realtà; un’opera meta-cinematografica, e in parte autobiografica, in grado di parlare a tutto il pubblico e non solamente agli addetti ai lavori (scesi in campo come parte integrante del progetto).
Prodotto da White Box Studio e distribuito da NoClaps, il film vede protagonista Michele Sarti, interprete cagliaritano già fattosi notare con il primo lungometraggio di finizione di Vassallo, La Sedia, del 2023.
L’opera sarà disponibile in alcuni cinema italiani a partire dal 25 aprile 2024.
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Il posto: metacinema documentario
La trama del film emula la realtà dei fatti, in un’astrazione immaginifica che invero ricerca una trasmissione più concreta del proprio messaggio. Pietro (Michele Sarti) è un regista arrivato ad un momento statico della propria carriera, avvolto da inquietudini, da incertezze e da un’autocommiserazione dovuta al diramarsi capillare della propria crisi professionale, sfociata in una più profonda irresolutezza esistenziale. Continuamente sotto lo sguardo persecutorio di Dudo (Renzo Cugis), surreale proiezione di sé, libera dai propri patimenti, il protagonista è alla disperata ricerca di un produttore per il suo prossimo film, una sorta di versione geriatrica di Ocean’s Eleven; i continui rifiuti e il trascinarsi nell’oblio dei propri rapporti, in particolare quello con la compagna Camilla (Bianca Maria Lay), accrescono i suoi tormenti, sino al momento della svolta, che ci proietta definitamente all’interno del progetto.
Alla proposta di Alessandra (Alessandra Di Pietro) di realizzare un documentario per i 50 anni di DEGW, egli accoglie con stupore la richiesta, assorto dai dubbi che solamente nel finale troveranno soddisfacimento, riconoscendo questa come l’opportunità per una sua rinascita e come accompagnamento atto a ritrovare il proprio posto nel mondo.
La consapevolezza di dover far proprio il progetto, per Pietro arriva nel momento in cui scopre un intimo legame con la storia dell’azienda, che passa dalla relazione tra i suoi genitori e che anche qui si rifà ad un’autobiografismo imperante per tutto il lungometraggio.
Al posto dei professionisti
Il contrasto tra la realtà e la finzione viene esaltato nei personaggi, dal momento che l’obbiettivo postosi dal film è quello di analizzare gli effetti dello spazio, le conseguenze delle scelte architettoniche in relazione al sentimento umano, che da esso viene scaturito; un’analisi della consistenza emozionale di un luogo, vista dagli occhi di chi il proprio posto sembra averlo smarrito. Egli è un personaggio che si fa persona, che prende vita nella finzione ma sembra il più vero di tutti: universale, trasversale, soffocato dalla difficoltà di prendere delle decisioni come specchio dell’essere umano.
È tutto un gioco di dislocazione, con il professionista interpretativo posto a vestire i panni di chi lo dirige mescolandoli con i propri, con i professionisti del settore, dirigenti della stessa azienda raccontata, chiamati a recitare sé stessi, a rimanere nella propria verità anche se immersi all’interno di una realtà simulante, ricostruita.
Il posto: valutazione e conclusione
I plausi vanno innanzitutto al regista Gianluca Vassallo e alla DEGW, entrambi messisi in gioco con coraggio e capaci di scardinare alcuni canoni, in nome di un progetto innovativo, originale. L’autore tenta di trasmettere i principi di chi definisce l’architettura come un’arte che si attraversa, entrandovi per mezzo di una rivisitazione di sé, calata direttamente all’interno del contesto.
L’espediente narrativo del doppio, della proiezione del protagonista (esso stesso proiezione del pensiero autoriale), contribuisce a dare un senso emotivo e filosofico al racconto, a non soffermarsi ad una mera ricostruzione storica, per andare ad esaminare il senso profondo di chi e cosa si sta raccontando.
La prova di Michele Sarti è impeccabile: ci porta a respirare affannosamente la sua Cagliari, il suo posto e le sue angosce, grazie alla plasticità di un volto su cui si traccia esplicitamente ogni singola emozione. Ma a stupire sono anche i dirigenti dell’azienda che, calati all’interno della narrazione, non stonano ma danno anzi una maggior credibilità alla realistica finizione, in un’opera composita che trova il suo spazio naturale in sala, negli occhi e nel pensiero degli spettatori.
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