Il prigioniero coreano: recensione del film di Kim Ki-duk

Nelle sale italiane arriva finalmente Il prigioniero coreano, ultimo lavoro del Maestro Kim Ki-duk.

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2016 e distribuito nei cinema italiani a partire dal 12 aprile 2018, Il prigioniero coreano è l’ultimo lavoro di Kim Ki-duk, una delle firme più interessanti del panorama autoriale internazionale. Nemo propheta in patria sua: più apprezzato in Europa che in Corea, Kim Ki-duk ha fatto negli ultimi quindici anni incetta di premi nelle maggiori manifestazioni occidentali, luogo del cuore di quel suo cinema a volte visionario, a volte diretto, ma sempre e comunque di grandissima rilevanza artistica.

kim ki-duk, cinematographe

Il tocco del Maestro si rinnova ne Il prigioniero coreano, thriller politico ambientato tra Corea del Nord e Corea del Sud. Il dramma dei due Paesi, che da settant’anni sanguina come una ferita aperta nel cuore dell’Asia, è raccontato dal regista attraverso una storia dagli echi kafkiani in cui un uomo qualunque si trova al centro di un caso nazionale, costretto a difendere la propria integrità con tutte le sue forze.

Il Prigioniero Coreano, il dramma di un uomo tranquillo

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Nam Chul-woo (Ryoo Seung-bum) è un modesto pescatore che ogni mattina all’alba prende la sua vecchia imbarcazione e si inoltra nelle acque del lago, confine naturale che separa il suo villaggio dalle rive del Sud. La barca, la moglie e la figlia di sette anni – oltre a una sincera devozione per la dinastia dei Kim e per il leader Kim Jong-un – sono tutto ciò che Nam possiede, il centro e i confini della sua vita tranquilla. La sua dimessa serenità sarà sconvolta, però, proprio dal superamento di questi confini, un giorno che la sua barca in panne lo porta accidentalmente dall’altra parte del lago, nella rete politica del Sud. Nam inizia così la sua odissea negli uffici della sicurezza interna sudcoreana, dove dovrà dimostrare di non essere una spia e difendere, fino alla fine, la sua ferma decisione di tornare a casa.

Il Prigioniero Coreano, due Paesi, un unico popolo

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Da coreano del sud, Kim Ki-duk presenta al pubblico di tutto il mondo un’opera finalmente libera da pregiudizi, un’analisi sincera e sentita dell’attuale situazione che connota il suo Paese, per intero. Come sempre, il Maestro esprime il desiderio di parlare davvero dell’uomo, al di là delle scelte ideologiche e della forma del proprio governo. Nam diventa un ago della bilancia che indica, spostandosi, le storture di questo e di quel sistema, senza prendere una posizione ai poli, ma tornando al centro per una ferma denuncia sul conflitto fratricida che separa il suo popolo. Strattonato dalle due facce della propaganda, che si tratti del Sud capitalista o del Nord comunista, Nam perde progressivamente il senso delle gerarchie, avvertendo il ruolo schiacciante della struttura quando questa è lontana dalla sensibilità umana.

Il Prigioniero Coreano e la speranza nell’umanità

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Lontano dal rassegnarsi a un paesaggio del tutto pessimista, Kim Ki-duk illumina la sua storia con alcuni spiragli di pura umanità: su tutti, la guardia Oh Jin-woo (Lee Won-gun) che diventa una sorta di angelo custode del protagonista e, nonostante il suo ruolo, uno dei pochissimi a non aver perso di vista l’empatia e la compassione a favore dell’ideologia. Pur nell’innegabile integrità dei dirigenti della sicurezza sudcoreana, infatti, si perde del tutto il rispetto dell’essere umano in quanto tale, che diventa tristemente solo una pedina sulla scacchiera geopolitica. Nam è lusingato, corteggiato, sostenuto non in quanto uomo, ma in quanto simbolo di un’auspicata vittoria sul regime di Kim Jong-un. Analogamente, una volta tornato al Nord, il suo arrivo non è celebrato nella gioia privata del ricongiungimento familiare, ma perché testimonianza della resistenza dei cittadini nordcoreani alle tentazioni del capitalismo. Il regime, che sia esplicito o sottinteso, è una rete che cattura i suoi figli senza alcuna cura della loro individualità, affamato di grandi numeri da poter esibire sui tavoli diplomatici.
Ai margini di questa società spietata, i piccoli uomini e le piccole donne possono mantenere, nell’ombra, la libertà di restare umani. In questo senso si legge l’incontro con la prostituta nei vicoli di Seul, un elemento chiave nell’evoluzione politica ed esistenziale che porterà Nam verso il liberatorio finale.

Il Prigioniero Coreano conferma Kim Ki-duk come autore internazionale

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Per parlare di temi così pressanti e concreti, Kim Ki-duk adotta un linguaggio diretto in cui il simbolo lascia spazio al racconto, concedendosi ben pochi momenti di lirismo e di metafora: se Ferro 3 – summa stilistica dell’autore – è pura poesia, Il prigioniero coreano è solida prosa. Il regista riscrive le regole del thriller declinandole secondo il suo inconfondibile linguaggio e si concede una fotografia cruda e alcuni spazi di monologo in cui esprime, attraverso i personaggi, la sua lettura della storia e del contesto in cui è ambientata. Il pensiero dell’autore ha inoltre trovato un veicolo di espressione eccezionale nell’intensa interpretazione del protagonista Ryoo Seung-bum, coerente e credibile in ogni sua sfumatura. Attore molto noto e apprezzato nel mercato coreano, Ryoo Seung-bum si immedesima anima e corpo nel personaggio dosando con grande sapienza le impercettibili tonalità espressive che variano dall’inizio alla fine del film. L’apertura degli occhi, l’emancipazione della mente, oltre che l’inaudita sofferenza delle torture, si leggono chiaramente sul volto e sul corpo dell’attore che, da solo, potrebbe reggere l’intera pellicola. Adeguata anche l’interpretazione dei comprimari, per quanto – necessariamente – meno complessa.

L’appuntamento per tutti gli amanti del cinema è – in questo caso – obbligatorio. Il prigioniero coreano piacerà anche a chi ritiene Kim Ki-duk troppo difficile o di nicchia: si avrà a che fare con un racconto all’altezza di restituire un’immagine onesta di uno dei paesi più offuscati dalla propaganda mediatica filo occidentale, senza sconti o piaggerie partigiane.

Il prigioniero coreano è al cinema dal 12 aprile con Tucker Film.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 4
Recitazione - 5
Sonoro - 4
Emozione - 5

4.7