Il ragazzo di campagna: recensione del film con Renato Pozzetto
Il ragazzo di campagna è un film del 1984 diretto da Castellano e Pipolo, con Renato Pozzetto come protagonista. Si tratta della seconda collaborazione fra l’attore milanese e il duo di registi, dopo Mia moglie è una strega (1980) e prima di È arrivato mio fratello (1985) e Grandi magazzini (1986). Il ragazzo di campagna si rivelò uno dei maggiori successi stagionali al botteghino italiano, ottenendo la ragguardevole cifra di circa 10 miliardi di lire. Un incasso paragonabile a quelli di grandi produzioni apprezzate da critica e pubblico come C’era una volta in America e Terminator.
Artemio (Renato Pozzetto) è un umile contadino della campagna lombarda, che arrivando al fatidico quarantesimo anno di età sente improvvisamente l’esigenza di espandere i propri orizzonti e scoprire di più sulla realtà che lo circonda. Ignorando il consiglio della madre, che lo vorrebbe accompagnato con la compaesana Maria Rosa, Artemio decide di cercare fortuna nella vicina Milano, chiedendo ospitalità al cugino Severino Cicerchia (Massimo Boldi), detto Lo scoreggione. Nonostante l’incontro con la bella Angela (Donna Osterbuhr), il protagonista capisce ben presto che la vita della metropoli non è tutta rose e fiori, e si trova costretto ad affrontare uno stile di vita e delle difficoltà a lui sconosciute.
Il ragazzo di campagna: una rappresentazione del dualismo fra città e campagna divenuta col tempo un piccolo cult della comicità nostrana
Dopo aver affrontato il dualismo campagna/città nel precedente (e migliore) Il bisbetico domato, Castellano e Pipolo tornano sul tema con un film che con semplicità e senza alcuna pretesa autoriale ironizza sui paradossi e sulle differenze fra la vita rurale e quella in una grande metropoli. I due registi cuciono così su misura di Renato Pozzetto l’ennesimo ruolo da sempliciotto sprovveduto ma bonario, che il comico milanese interpreta con la solita efficacia. Fra le pieghe di una sceneggiatura grossolana, volgare e a tratti demenziale (pensiamo per esempio al personaggio di Severino lo scoreggione) emerge un ritratto fedele, anche se estremizzato, della società italiana degli anni ’80, divisa fra una forte tradizione rustica e campagnola e la voglia di seguire un modello di società più improntato alla modernità e al consumismo. Il risultato è un film semplice, inoffensivo ma sincero, divenuto nel corso degli anni un piccolo cult del cinema nostrano.
Fra le tante scene grottesche ma irresistibili de Il ragazzo di campagna è impossibile non citare quella del passaggio del treno, visto dagli abitanti del paesino di Artemio come uno spettacolo da ammirare e per cui riunirsi giornalmente, e quella che vede Renato Pozzetto districarsi in un monolocale di pochi metri quadrati nel capoluogo lombardo. È proprio in eccessi come questi che il film trova paradossalmente la propria forza, sopperendo alla mera trama, ridotta all’osso e largamente prevedibile, con la rappresentazione tragicomica di Milano, che fra traffico impazzito, piccola e grande criminalità e disoccupazione imperante viene dipinta più come una vera e propria giungla urbana che come l’esempio di modernità e stabilità che siamo abituati a vedere. L’esilarante e trionfale ingresso nel capoluogo lombardo di Artemio a bordo di un trattore diventa così il simbolo della collisione di due realtà agli antipodi, ma entrambe imperfette.
Il ragazzo di campagna con il passare dei minuti cede il passo a una morale semplicistica e un po’ ingenua
Nel panorama della commedia italiana degli anni ’80, Il ragazzo di campagna si distingue per il suo saper coniugare una comicità basilare ma fruttuosa con un’analisi della società italiana non banale e per certi versi in anticipo sui tempi, che con il passare dei minuti cede però il passo a una morale semplicistica e un po’ ingenua che raffigura un ritorno alle origini e alla ruralità come unica vera panacea di tutti i mali.
A dispetto di una regia rudimentale e di una rappresentazione scenica colma di scurrilità e cliché, Il ragazzo di campagna dopo più di 30 anni dalla sua uscita mantiene inalterato il proprio fascino, riuscendo ancora a intrattenere diverse generazioni e a fare riflettere sui paradossi e sui problemi connessi al progresso e all’urbanizzazione.