Il Riccio: recensione del film tratto dal romanzo di Muriel Barbery
Il Riccio è una pellicola francese di Mona Achache del 2009, tratta al romanzo L’eleganza del riccio di Muriel Barbery con Josiane Balasko, Garance Le Guillermic e Togo Igawa.
Tre appartamenti al numero 7 di Rue de Grenelle sono le nostre uniche feritoie dalle quali poter godere di uno spettacolo sublime e impareggiabile. Paloma è una ragazzina geniale, enfant prodige della famigliola Josse, microcosmo benestante che colma le crepe quotidiane con isteriche cene lussuose e finte chiacchierate colte, altisonanti e ripetitive.
Nel suo stesso palazzo vive al primo piano una bizzarra portinaia, Renée, vedova scontrosa, che si distingue per il suo isolamento volontario e la sua estrazione non proprio al pari degli abitanti dello stabile, una persona che si cela dal mondo, sagace, profonda e imprevedibile.
Paloma ha una marcia in più rispetto alle ragazzine della sua età, è molto estroversa, a scuola apprende con una velocità impressionante, studia il giapponese, ama giocare a Go ed usa incessantemente la videocamera del padre per filmare attimi di vita quotidiana e momenti di riflessione in cui si mette a nudo.
Un giorno qualunque va nella sua soffitta, nascondendosi dalla famiglia e si confessa: il giorno del suo dodicesimo compleanno, a dieci giorni da quel momento, si suiciderà.
Il suo essere arrendevole è tutt’altro che compatibile, lei prende questa decisione non come gesto finale di una vita tesa alla tristezza, ad un dolore sconfinato, tutt’altro: il suo unico desiderio è quello di non diventare come la propria famiglia, come gli adulti, disastrosa, vuota, senza ambizioni, relegata ad appassire e a privarsi di un senso, ragione per cui mettere fine alla propria vita prima che essa possa deludere è l’unica strada, poiché sperare in qualcosa è un’amara possibilità che non si adatta alla sua vita o a quello che vuole che sia.
In questo giro di vite si insinua Kakuro Ozu, nuovo inquilino del palazzo che sorprende tutti con il suo carattere molto mite, la sua nobiltà d’animo e il fascino orientale.
Kakuro fa la conoscenza di entrambe e viene rapito fin da subito da Renée, cogliendo ciò che i suoi silenzi urlano a squarciagola; di Paloma si lascia affascinare, da questa poco più che ragazzina che parla giapponese e chiama i suoi gatti Parlamento e Costituzione.
Le loro vite riempiranno gli abissi, sapranno arrivare dove pochi avevano potuto osare fino ad allora, volontariamente e involontariamente.
Paloma si sconterà con la sua decisione e la questione del tempo, del suo tempo e di come esso possa essere stravolto alla ricerca di qualcosa che la stessa vita le insegnerà e in cui, per la prima volta, non sarà affatto la prima della classe. Renée e Kakuro vivranno un rapporto intenso e quasi inenarrabile, che li troverà inaspettatamente impreparati davanti ad una fine e una rinascita.
Il Riccio è una pellicola costruita sui monologhi di Paloma e Renée, scorrevole e intensa, riesce a contenere e ad esplicare il caos delle menti di queste due donne così diverse ma che non differiscono affatto.
Il romanzo viene un po’ trasformato in una divagazione letteraria, forse stravolgendo alcune questioni ma senza perdere mai il senso intrinseco.
Ne Il Riccio Parigi è assente, citata solo di sfuggita come un saluto di cortesia, nonostante ciò la mancanza non è tale da provarne nostalgia, quasi un rifacimento zolaniano. La cinepresa è dedita alle vite di Renée e Paloma e del nuovo arrivato in quel palazzo di aristocratici.
Paloma teme di finire in una boccia di vetro, quella per i pesci rossi, ha il terrore di diventare un giorno una persona svuotata, decimata, un po’ come Renée, succube del proprio deserto autoimposto dalla sua condizione psichica e sociale, alle prese con una sudditanza apparente, convinta di dover dimostrare di essere l’archetipo a tutti i costi della portinaia sciatta, senza doti, senza spessore, che si trascina con la spesa e vestiti lugubri nel suo appartamento al piano terra, con la tv mai spenta, gli odori di minestre e zuppe nauseanti, conscia che coltivare la solitudine sia l’unico fiore che non dia alla luce frutti guasti.
Un personaggio che non teme di essere indietro dall’universo elitario che la circonda.
Ne Il Riccio ogni personaggio ha una propria intimità, il proprio spazio.
La casa assume una connotazione visiva, temporale, un culto nel quale non ci si può solo crogiolare, o cibarsi in tempi alterni, la casa simboleggia la rivelazione, lo svelamento del proprio io a chi ha il coraggio di scostarsi da sé stesso per guardare. Renée non era considerata, era evitata da gran parte degli inquilini che non riuscivano ad ottenere da lei che chiacchiere pedanti ed effimere.
Come il riccio che nasconde la propria elegante interiorità attraverso i suoi aculei, Renée schermava la sua anima attraverso quelle pareti e qualche frase di circostanza lanciata qua e là. Il suo carattere burbero e dissonante ha ceduto ogni riserva dinanzi a chi come Kakuro ha saputo andare oltre, ha carpito il suo mondo interiore da poche frasi di Tolstòj vincolate tra i discorsi quotidiani di pulizia di scale, posta urgente e famiglie alla deriva.
Renée è una persona coltissima, possiede una libreria sconfinata, un gusto particolare per la musica, per il cinema e la filosofia. Quanto meno gode della sua solitudine per apprendere, leggere, impartirsi un sapere in autonomia tra le pagine di Marx, Proust e Tolstòj.
Nessun borghese può concepire che una portinaia legga l’ideologia tedesca per elevare il proprio spirito, no? O meglio non ci aspetta che possa essere così. Il Riccio diventa un luogo per sottolineare la blasfemia di un pregiudizio, secondo il quale una portiera, una casalinga non può parlare di arte, di estetica, non avendone una qualifica per farlo.
Ma chi conosce i pregiudizi capisce quanto essi possano essere assurdi e che liberarsene è sicuramente un modo per vivere una vita qualitativamente più felice.
Paloma, grazie a Kakuro, entra nel suo mondo, condivide con lei discorsi di ogni tipo e tè sempiterni che inducono le due a specchiarsi l’una nell’altra. Paloma è desiderosa di avere una compagnia che non la annoi, che sia eclettica, grottesca, anche un po’ comica ed eccentrica, ed è Renée il suo specchio umano nel quale comprendere che esistono esseri simili a noi, e si trovano nell’incredibile, nel momento disatteso, forse anche nel momento meno opportuno.
Paloma mette in gioco la sua disaffezione verso un futuro che non desidera avere, i suoi 11 anni le impediscono di poter provare una vera sofferenza verso la proprio vita, una tristezza effettiva che la porti verso la sottrazione, la resa finale.
I suoi sentimenti, le emozioni sono ancora opache, l’impedimento emozionale è tale da farle prendere con lucidità o meglio dire con freddezza assoluta questa decisione che cadrà il suo dodicesimo compleanno.
Ma lentamente comincerà a comprendere, ad apprendere la lezione più vera di tutte. Capisce cos’è la fine, cos’è il tempo e diventa consapevole di una apatia antecedente. La sua era sofferenza senza dolore, nevrosi da ragazzina ricca autocritica e lungimirante, talmente ampia e brillante da perdersi nelle sinapsi, incapace di cogliere l’incanto della sua età. Come Renée che aveva accolto con modestia la sua apparenza da persona mediocre che si lascia scivolare tra i gesti quotidiani.
Paloma e Renée sono due esseri che vivono in incognito, vivono la vita fingendo di essere altro, di fare altro, incapaci di potersi rivelare per le persone geniali quali sono perché obliate dal pregiudizio e dall’indifferenza, che solo chi sa vedere può cogliere.