Il tempo che ci vuole: recensione del film da Venezia 81

Francesca Comencini scrive e dirige Il tempo che ci vuole, a Venezia 81 e poi in sala il 26 settembre 2024, ricostruendo il suo rapporto con il padre Luigi Comencini. Con Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano.

Prima c’è il Fuori Concorso, a Venezia 81. Poi l’uscita in sala, il 26 settembre 2024, per 01 Distribution. Il tempo che ci vuole, regia di Francesca Comencini e con Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano e Anna Mangiocavallo, è una collezione di ricordi, un impasto dal sapore decisamente autobiografico. Alla regista romana, qui anche sceneggiatrice, serve a chiudere i conti con l’amato fantasma paterno, amato e ingombrante. Ha cercato di distanziarsene (professionalmente, si intende) per tutta la vita, racconta, ma ora è il momento di ribaltare la prospettiva. Luigi Comencini è morto nel 2007 e nel 2024 Francesca Comencini ha trovato finalmente la forza e lo sguardo largo per accettare il debito di riconoscenza: dovergli tutto, senza più nasconder(se)lo. Il tempo che ci vuole è la storia di un padre e una figlia, di un uomo già fatto che non smette di cercare e di una donna in formazione. È anche la storia di due registi; il cinema è il terreno comune che lega la realtà e l’immaginazione, la Storia e il privato, l’amore e il dolore. Due punti di vista che si intrecciano: un padre e una figlia. Non c’è niente e nessuno, al di fuori di loro.

Il tempo che ci vuole: un padre e una figlia, non serve altro

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Geometria variabile: il padre lo interpreta sempre Fabrizio Gifuni. Luigi si chiama, ma il suo nome esce fuori al massimo una o due volte, non è importante. È un regista cinematografico, un regista di successo. La figlia, che lo segue a un passo di distanza con un’ammirazione sconfinata, prima, un’attitudine più aggressiva e contestataria, poi, si sdoppia. Bambina, le dà il volto la piccola Anna Mangiocavallo. Donna, è il turno di Romana Maggiora Vergano. Un padre e una figlia: è tutto quello che interessa a Il tempo che ci vuole. Spazio per gli altri, non c’è. Francesca Comencini racconta tutto quello che di suo c’è nel padre e viceversa escludendo sistematicamente ogni elemento che possa valere come interferenza. Un padre e una figlia in scena, letteralmente: ci sono solo loro. Il carattere esclusivo, vischioso, del legame è restituito da un’idea di cinema senza fronzoli, asciutta e tagliente.

Il tempo che ci vuole è una galleria di ricordi e momenti esemplari, in cui il mondo di fuori è una parentesi opaca, una schiera di fantasmi di cui si intuisce la presenza ma che non si può (né si vuole) mettere a fuoco. All’inizio è tutto idilliaco: la figlia bambina (Anna Mangiocavallo) guarda estasiata il padre che fa le sue magie sul set – quello di Le avventure di Pinocchio (1972), il leggendario sceneggiato Rai – ed è chiaro che quell’incanto, sotto sotto, la sta cambiando. Il mondo, il male, la sofferenza, per ora sono sullo sfondo, sono le fauci della balena, la grande metafora che ciclicamente torna a far capolino nella storia. Nella prima parte del film, l’infanzia, nulla avrebbe interessato maggiormente Luigi Comencini – era il regista dei bambini, una semplificazione frettolosa ma che tradisce una grande verità – la vita al di fuori del rapporto padre figlia c’è ma non si vede.

Nella seconda, quando la bambina è cresciuta (Romana Maggiora Vergano), cambiano tante cose. C’è la Storia, il terrorismo, il caso Moro. C’è la droga. C’è il solco di incomunicabilità che allontana il padre dalla figlia. Solo il cinema può riunirli. Il padre fa un grosso sforzo per aiutare la figlia a uscire dal tunnel della dipendenza. La figlia prende in carico la sua vita seguendo le orme del padre, delicatamente ribellandosi al suo modo di fare – debutta con un film autobiografico, che lui non avrebbe mai girato e glielo fa notare – ma trovando, nel cinema, nell’illusione dello spettacolo, il punto di contatto. Il cinema è, per entrambi, la fuga: dalla vita, dal dolore, dalle cose che si fatica a capire. Ma non una fuga per negare o nascondere la realtà. Al contrario, per comprenderla meglio. A questo serve il cinema: una serie di bugie, per trovare la verità.

Due generazioni di interpreti a confronto e la forza del cinema

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L’incontro non è solo quello (in scena) tra un padre e una figlia, ma anche tra due generazioni di interpreti. Alla forza carismatica, dignitosa e sobriamente intensa di Fabrizio Gifuni risponde l’elettrica dolcezza, la fragilità arrabbiata, più giovane, di Romana Maggiora Vergano. È l’incontro tra l’attore affermato e la giovane stella che, dopo il mostruoso successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, si prepara a declinare il cinema in prima persona singolare: da protagonista. Francesca Comencini costruisce le affinità e le lontananze tra se stessa e suo padre non soltanto tornando all’album di famiglia, pescando fra i ricordi. Piuttosto giocando con gli attori, affidandosi senza riserve, lasciando che le inevitabili peculiarità – di stile, carattere, sguardo generazionale – rendano più credibile il racconto della vicinanza e della lontananza di Francesca e Luigi.

Il cinema e la vita sono le forze motrici. Francesca Comencini suggerisce la tensione esclusiva, egoista, che agita il rapporto tra un figlio e un genitore. Dalla sua ha la maturità necessaria per ricostruirsi in scena aprendosi alle ragioni del padre, dandogli spazio e comprendendone le ragioni, come non le sarebbe riuscito all’epoca. Il tempo che ci vuole è la storia di un padre e una figlia che sono, contemporaneamente, protagonisti e non protagonisti della stessa storia. Il cinema sta nel mezzo. È la fuga (salvifica) dalla realtà, l’anello di congiunzione tra le rispettive sensibilità, è un mestiere bellissimo, il ricordo, la memoria, il dovere di raccogliere e preservare la bellezza. Il film lo racconta con dovizia di particolari e ne coglie infinite sfumature. Fatica di più, molto di più, a trovare la chiave per ingabbiare la complessità del rapporto tra i protagonisti.

Il racconto del tempo che passa. Le pagine di Storia, il caso Moro e più in generale il fervore politico degli anni ’70 – ironicamente ma non troppo il film ha per protagonista il Moro per antonomasia, Fabrizio Gifuni – la definizione di due psicologie che si influenzano e si arricchiscono vicendevolmente. E la droga. Il tempo che ci vuole cerca di essere all’altezza dei suoi spunti, ma ne coglie spesso solo una parte, sfiorandoli, intuendone la profondità e ritraendosene spaventato. Questa storia potrebbe funzionare come una brutale e netta esposizione di frammenti, ricordi, fette di vita. Oppure offrirsi agli occhi dello spettatore in maniera più organica, come le pagine di un diario segreto che raccontano il tempo che passa e le tracce lasciate sulle persone. È l’indecisione sulla forma, l’essere un po’ l’una e un po’ l’altra via, senza scegliere una volta per tutte, a smorzare il fuoco di Il tempo che ci vuole. Un film che semina idee interessanti ma non ha la forza di raccogliere.

Il tempo che ci vuole: conclusione e valutazione

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Il tempo che ci vuole riesce a raccontare l’esclusività del rapporto tra un padre e una figlia – bravissimi, nelle orchestrate differenze, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano – e la forza salvifica del cinema, fuga dalla realtà e insieme riappropriazione. L’immaginazione è il porto franco che consente di rievocare il passato, di approfondire passioni e desideri, di definire in maniera scrupolosa il rapporto tra individuo e società, di toccare con mano l’impalpabile. La regia di Francesca Comencini ha le idee chiare su quello che vuole raggiungere, ma si fa schiacciare dalla vastità dell’argomento o meglio, delle sue infinite sfumature e digressioni. Tante parentesi nel film (politica, droga, infanzia, cinema) e non abbastanza tempo (e una struttura adeguata) per indagare.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.6