TFF36 – In Fabric: recensione del film di Peter Strickland
Un vestito maledetto, indossato in origine da una sfortunata modella che ha perso la vita sulle strisce pedonali di una Londra sedotta e sottomessa dal consumismo e le sue dinamiche malate è al centro della commedia horror In Fabric, per la regia del britannico Peter Strickland.
Identificabile come ghost story che strizza l’occhio a molti generi cinematografici, fra cui il caro giallo all’italiana, In Fabric è distribuito dall’affidabile A24 (alle spalle di titoli di qualità come Locke, Enemy, Ex Machina, Room, The Lobster e il premio Oscar 2017 Moonlight), che farà approdare la pellicola nelle sale nel 2019.
La trama di In Fabric vede al centro delle surreali e ironiche vicende del film un sinuoso abito rosso, la cui taglia apparentemente destinata a un corpo esile sembra adattarsi magicamente al corpo di chi lo indossa, motivato all’acquisto anche dai modi ipnotici e seducenti della singolare commessa del negozio in cui il capo viene venduto, che si dilunga in spiegazioni e allegorie che coinvolgono il rapporto metaforico fra la texture del tessuto e le sensazioni contrastanti evocate.
La prima sfortunata acquirente è Sheila (Marianne Jean-Baptiste), una mite e gentile impiegata di banca recentemente divorziata. La donna vive con il figlio ventenne e la fidanzata dominatrice, più grande di lui (Gwendoline Christie), travolti da uno spiccato affiatamento sessuale con risvolti al limite della perversione.
L’abito nuovo corrisponde al desiderio di Sheila di rimettersi in gioco pubblicando il suo profilo fra gli annunci per cuori solitari, ma la maledizione dell’abito è destinata a condizionare ogni tentativo di recuperare serenità.
Il capo passa successivamente in altre mani, rivelando a chiunque vi entri in contatto la sua natura diabolica e vendicativa, avvallata dalla raccapricciante commessa dello store, costantemente impegnata in strani rituali volti ad irretire gli ignari acquirenti a lasciarsi sedurre e incantare dal valore effimero della vanità, al di là delle reticenze.
In Fabric: lo sguardo di Peter Strickland sul consumismo assassino e la conseguente spersonalizzazione del mondo del lavoro
In Fabric è una pungente e acuta metafora sull’esasperazione dell’importanza delle apparenze per misurare il valore personale, e della conseguente e contemporanea spersonalizzazione di un mondo del lavoro in cui le malelingue la fanno da padrone e il dipendente si vede sanzionato per aver agito in modi più che umani e giustificabili ma considerati non idonei alle rigide regole del settore.
L’importanza della produttività raggiunge così valori demenziali, mentre l’aspetto esoterico entra in gioco per far sì che sia l’oggetto a dominare la persona e non il contrario.
La componente erotica, inoltre, rafforza il presupposto di un film che mira a mettere in risalto la superficialità rispetto alla sostanza, laddove la ricerca del piacere fisico e dell’amore si pone come mero e ulteriore movimento estetico verso la ricerca di un legame ideale che non appartiene alla realtà dei rapporti interpersonali ma che – nonostante ciò – sembra perseguitare le solitudini dei protagonisti, capaci di scegliere e scegliersi solo in base a dei canoni epidermici, al bisogno o all’abitudine, con risultati puntualmente deludenti, se non mortali.
Il film di Peter Strickland mette così sul tavolo carte interessanti e promettenti, in cui – abilmente – anche l’assurdo trova una collocazione comoda e coerente. Peccato che le premesse tendano alla circolarità e la seconda parte del film si ritrovi ad essere una pressoché identica copia della prima, col solo cambiamento dei personaggi in gioco, prolungando l’arrivo di un finale che non sorprende e non chiude il cerchio, delegando agli antefatti il compito di rendere soddisfacente l’epilogo.
Nel cast di In Fabric figurano anche Hayley Squires, Leo Bill, Julian Barratt, Steve Oram, Sidse e Babett Knudsen. La sceneggiatura è opera dello stesso Peter Strickland, con un’uscita nelle sale cinematografiche attesa per il 2019.