Io tu noi, Lucio: recensione del documentario dedicato a Battisti su Netflix
Cantore delle fragilità maschili, sperimentatore, apolitico che compie però l'atto politico di rifiutare la sua musica al mercato: l'indagine polifonica sul genio battistiano attraverso i contributi di chi l'ha conosciuto o ne ha seguito le orme.
Io tu noi tutti è il titolo dell’undicesimo album di Lucio Battisti, pubblicato nel 1977: inciso a Hollywood, contiene Sì, viaggiare e Amarsi un po’. Nella copertina, l’immagine di un raduno, qualcuno giura di avere intravisto tra la folla la sagoma dell’artista che tiene in braccio un bambino, forse il figlio Luca. È la seconda e ultima volta che si sarebbe fatto ritrarre sulla cover di un proprio album: la prima, nel 1970, per Fiori rosa, fiori di pesco, lo vede di profilo: un omaggio a Bob Dylan da parte di chi ha sempre rifiutato di feticizzare la propria immagine e ha lottato per preservarla dalla serializzazione – e sterilizzazione – nel culto.
Io tu noi, Lucio volge allora in vocativo l’ultimo elemento del titolo di quell’album del 1977 di grande successo per appunto invocare e celebrare la figura forse più rivoluzionaria, e ancora non del tutto esplorata proprio perché misteriosa, della storia della nostra musica leggera. Anzi, leggerissima, come direbbero Colapesce e Dimartino, due tra i tanti artisti intervenuti nel documentario. Leggerissima sì, ma di una leggerezza che nella cantabilità non appiattisce né testo né melodia né sonorità ma trova una loro sintesi perfetta, come sottolinea Niccolò Fabi.
Io tu noi, Lucio: Battisti libera il suo canto dall’impostazione vocale tenorile e porta blues e Beatles nella canzone italiana
Di Battisti, il documentario evidenzia la preparazione: benché da autodidatta, studiò tutta la vita. La sua innovazione più grande fu forse l’introduzione della canzone beatlesiana in Italia. Amante di David Bowie e da questo riamato, Battisti guadava alla scena britannica e alle avanguardie oltreoceano. In particolare, seguiva Otis Redding, ne studiava lo stile performativo, in certa misura lo replicava. Nelle sue canzoni, ci sono i Beatles, c’è il Blues. Tuttavia o forse proprio per questo, quando, dopo aver cominciato a fare gavetta come chitarrista e corista del gruppo I campioni, decise di farsi coraggio e tentare i primi passi da solista, non ottenne immediatamente risultati incoraggianti. La sua vocalità appariva strana, quasi bizzarra: talvolta l’intonazione era solo sfiorata e nulla, nel suo timbro e nel suo modo in apparenza non sempre controllato di usare la voce, sembrava aderire al canone canoro del tempo, d’impostazione tenorile, la maniera di Claudio Villa. Quella voce ruvida, che sacrificava la tecnica all’espressività – ma quel sacrificio era frutto di un calcolo e non di una mancanza d’intonazione o di un’incapacità –, piacque, però, a una discografica musicale francese, Christine Leroux, appassionata di cantautorato e avida cacciatrice di talenti. Fu lei a propiziare l’incontro fatale con Mogol.
Giulio Rapetti non rimase colpito dalle canzoni incise sui provini che quel ragazzo riccioluto e timido gli sottopose, ma dalla sua umiltà: “È raro che un artista ammetta che i suoi pezzi non sono un granché, ma lui lo fece. Mi colpì il suo modo di confessare che aveva qualcosa dentro, qualcosa che tuttavia non sapeva sempre esprimere al meglio“. È l’inizio di un lungo sodalizio, la nascita di un vero e proprio fenomeno musicale pop a due teste. Le liriche che vennero alla luce grazie a quell’unione di menti e talenti si sarebbero imposte per la loro semplicità apparente, in grado tuttavia, senza avvitamenti retorici o cripticità, di raccontare gli inciampi sentimentali degli italiani, soprattutto dal punto di vista maschile. Nessuno più di Battisti seppe cantare la fragilità del maschio italiano, non più macho imbrigliato dall’aspettativa di una sorniona noncuranza per i sentimenti, ma uomo sofferente per le sue incertezze affettive, per i volteggi amorosi che rendono pesante il cuore vuoto e, in un rovesciamento improvviso, spesso svuotano quello pieno.
Io tu noi, Lucio: Battisti l’impolitico e la responsabilità di non fare della musica un prodotto
Forse proprio perché le canzoni scritte con Mogol fissavano, attraverso il ricorso ad immagini quotidiane e a una retorica dimessa, i contrattempi emotivi dell’uomo contemporaneo, alle prese con una codificazione sfuggente di sé stesso in relazione alle accelerazioni di donne trasformiste, mai banali o rassicuranti nelle loro attese, su Battisti a lungo gravò il pregiudizio del disimpegno. Negli anni Settanta, in particolare, un’epoca enormemente ideologizzata, la musica di Battisti scontava l’impressione di situarsi all’estremo opposto rispetto alla canzone civile: il lirismo nonchalant, ironico o quasi elegiaco, di Mogol-Battisti non si è mai in effetti piegato alla gravitas richiesta dalla rappresentazione di convinzioni politiche ferme. A proposito del Mio canto libero, a un certo punto, circolò addirittura la diceria che racchiudesse, criptato, un messaggio neofascista. Meno fantasiosamente, a Lucio Battisti interessava esplorare la soggettività al di là della catechesi e dei confinamenti dottrinari: la vita quale pure sentimentalità, la vita in rapporto alla difficoltà di ricondurre le emozioni a discorso unitario o identitario, a visione organica di sé.
Quando decise di separarsi da Mogol e di cominciare a scrivere con Panella, emerse in lui l’esigenza di protendersi verso un orizzonte più spirituale in direzione del quale anche la parola scarniva, quasi annichiliva, i significati in favore dei significanti sonori. Eppure, ed è un puntuale Riccardo Scamarcio a farlo notare, Battisti di fatto ha compiuto “un atto politico” ogniqualvolta si è rifiutato di vendere le sue canzoni alla pubblicità, di cederle al mercato, dimostrando che si può fare musica senza assoggettarsi al suo dominio. Il suo canto libero, appunto. È questa la forma di responsabilità nei confronti delle sue opere e attraverso le stesse che Lucio Battisti si è fino all’ultimo assunto, una forma più congeniale alla profondità della sua devozione alla musica, linguaggio forse più alto e meno transitorio rispetto all’occasione compositiva e alla possibilità di ridurre la canzone a prodotto contingente. Rispettare il proprio lavoro ha significato per lui capire e onorare quanto fosse necessario sottrarlo alle mode, e per questo rompere sia con il passato sia con il futuro così da consegnarlo a un eterno presente, all’assoluto dell’accadere universale: ascoltiamo Battisti ancora e ancora perché le sue canzoni afferrano l’inafferrabile della nostra più riposta mancanza d’essere. E rilanciano ogni volta al desiderio di capirne di più. Delle canzoni e di noi stessi.