IT (2017) – recensione del film di Andy Muschietti
La recensione di IT, il film di Andy Muschietti trasposto dal romanzo di Stephen King. Un'allegoria disgiunta di immagini vintage tra horror e azione che non convincono
Nel 1986 Stephen King presentava una delle opere più profonde e importanti della letteratura moderna. IT, un romanzo che racchiude una grande forza introspettiva e una critica velata alla realtà sociale di una ridente cittadina del Maine, Derry, il tutto abilmente cinto da una storia fatta di mostri e paure quasi primordiali. Pennywise di fatto rappresenta il mostro che ha vissuto nella nostra infanzia, si è cibato delle nostre debolezze ed è inerte nei confronti di chi ha perso quello sguardo amabile e innocente che solo i bambini hanno. Tale maestosa riflessione socio-culturale non poteva passare inosservata agli occhi del cinema ed ecco dunque una prima trasposizione non cinematografica bensì televisiva, risalente al 1990 e con protagonista Tim Curry nei panni di Pennywise.
Esattamente 27 anni dopo quell’esperimento parzialmente riuscito, Andy Muschietti, subentrato alla regia dopo l’abbandono di Cary Fukunaga, dirige un nuovo adattamento del romanzo di Stephen King, in un’epoca diversa e in un momento socio culturale totalmente differente rispetto alla trasposizione di Tommy Lee Wallace. Non è un mistero se oggi, nell’era della tempesta mediatica e del nostalgico pensiero – generato soprattutto dalla serie TV Netflix Stranger Things – degli anni ’80 si è scelto di riportare sul grande schermo una storia affascinante come IT. Affidare la regia a Muschietti, già regista del celebre cortometraggio Mama, divenuto poi lungometraggio con il titolo italiano di La Madre, fa capire come l’intento del film sia quello di essere il più fedeli possibili non solo alla scrittura e all’intenzionalità del romanzo di King, ma di far trasparire in maniera quasi lapalissiana, le atmosfere, le descrizioni e gli sguardi dei ragazzi di Derry.
IT di Andy Muschietti è la prima trasposizione cinematografica dopo quella televisivia del 1990
Come già accaduto con la miniserie del 1990 la scelta è stata quella di dividere la trasposizione del romanzo in due separati capitoli, uno dedicato ai bambini di Derry e la seconda parte incentrata sulla loro visione del mondo da adulti. Il primo è forse il capitolo più affascinante, più suggestivo e più romantico.
Siamo nella piccola cittadina di Derry, nel Maine, apparentemente in una comune giornata di pioggia il piccolo George Dembrough sta facendo correre una barchetta di carta lungo un corso d’acqua piovana. La barchetta cade inesorabilmente in una fogna e Pennywise fa la sua prima apparizione. Il piccolo George viene divorato e si scatena ben presto la caccia a un essere demoniaco che prende la forma delle paure delle vittime. Tutto questo in un contesto quanto mai fuori dal mondo in cui gli abitanti di Derry sembrano essere totalmente assenti dagli eventi che si sono scatenati dopo la scomparsa di così tanti bambini. In questo ambiente sui generis trovano conforto tra loro un gruppo di ragazzini, autodefiniti Club dei perdenti, del quale fanno parte Bill (il fratello di George), Eddie, Sten, Richie e più avanti si aggiungeranno altri ragazzi che hanno alle spalle risvolti e vicende molto particolari, parliamo di Beverly e Mike.
Il gruppo cercherà in ogni modo di mettere i bastoni tra le ruote a Pennywise e alla sua fame di bambini. I Losers scopriranno di avere una grande forza, derivata dall’amicizia, dalla sofferenza e dai traumi infantili, mai del tutto superati.
Muschietti ha talento alla regia ma…
L’intera macchina allestita da Muschietti rispetta pienamente i canoni del romanzo, le ambientazioni e il gruppo di ragazzini è particolarmente coinvolgente nelle loro azioni. La regia è pulita, a tratti penetrante, citazionista (la scena del bagno di sangue ricorda Carrie, sempre di Stephen King) e riesce a cogliere perfettamente l’atmosfera degli anni in cui è ambientato (ottimo il piano sequenza iniziale nella scuola dove i ragazzini mettono in mostra il loro essere coesi e guasconi). Nel film di Muschietti c’è l’eco quasi assordante di Stand by Me, di Stranger Things, di ET, di quella forma d’arte cinematografica che mette in risalto l’importanza quasi romantica del vivere la vita con gli occhi dei bambini.
Quello che disturba molto e alla lunga stanca la visione è l’assemblaggio generale. Il film risulta infatti come un enorme contenitore di “momenti di vita” dei ragazzi, tentando invano di trovare un punto di giunzione e un anello intorno al quale muoversi armoniosamente. Si giunge in un punto nel quale ogni storia sembra separata, disgiunta, a sé. Il romanzo punta molto sulle esperienze personali ma il film non può essere scandito da un ritmo narrativo quasi metromonico e scisso da un ideale moto collettivo. Il passaggio da uno spaccato di vita all’altro è statico e prevedibile tanto che nello spettatore subentra quasi una coscienza a priori di ciò che si potrebbe verificare.
… IT galleggia in un mare di cliché
Se all’inizio l’apparato narrativo tiene in maniera piuttosto solida, dopo la prima ora si ha come la sensazione di assistere a tanti episodi di una serie TV non propriamente mixati in un film di due ore e trenta minuti. Un altro peccato del quale si macchia il film è il trascurare quasi in maniera voluta la vita nei pressi di Derry, concentrandosi più sul lato thrilling del romanzo e tralasciando tutto l’apparato emotivo che i ragazzi si trovano a vivere per colpa dell’ambiente che li circonda. Nel film si è perso il perché della paura primordiale di Derry calcando la mano solo sul personaggio di Pennywise, interpretato da Bill Skarsgard, troppo preoccupato del suo apparire piuttosto che del suo essere, quasi quanto la fotografia del film, spesso patinata e a volte non soddisfacente.
È quasi inevitabile il confronto con quel Pennywise di Tim Curry e purtroppo non c’è assolutamente paragone. Il Pennywise di Skarsgaard è pittoresco, poco istrionico e non fa paura, o meglio, è abilmente incastonato in una serie di jump scare che alla lunga annoiano diventando prevedibili. Il suo è il personaggio forse meno riuscito dell’intero film. Tim Curry era riuscito dal canto suo a creare un essere mostruoso, punk e aggressivo, un personaggio che terrorizzava più quando sorrideva che quando aggrediva.
La colonna sonora si avvale, come piace tanto al maestro Stephen King, di un lodevole mash up anni ’70 e ’80, un rock gradevole a appropriato. Benjamin Wallfish completa un complesso sonoro da brividi più improntato sul semplice jump scare che sulla vera melodia horror. Di sicuro va dato merito a Muschietti di essere stato un buon seguace di King, tanto che gli appassionati del maestro del brivido apprezzeranno (forse) lo sforzo del regista in tal senso.
È un’opera volutamente incompleta (uscirà nel 2019 la seconda parte) anche se giudicando semplicemente ciò che si è visto e senza essere fan di King, IT è un film carico di aspettative che riesce a galleggiare comunque in un rivolo di appigli vintage, che colpiscono i nostalgici ma deludono nell’intento generale.