Biografilm 2023 – Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind – recensione
Il biopic su uno dei miti del rock'n'roll, diretto da Ethan Coen.
La chiusura del Biografilm Festival 2023 è dedicata al primo lavoro da solista di Ethan Coen, Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind.
Il documentario è un biopic che racconta la figura di Jerry Lee Lewis, uno dei grandi padri del rock’n’roll, insieme a Elvis e Chuck Berry. Lewis, originario di Ferriday, in Louisiana, inizia a suonare il piano da giovane, insieme a due cugini, in chiesa. Cresciuto fra gospel e povertà, il ragazzo rimane folgorato dalla musica black, all’Haney’s Big House, piccolo tempio del jazz cittadino.
Da quel momento sviluppa un suo particolarissimo stile, un mix di boogie woogie, rythm’n’blues, gospel e country, grazie al quale lascia la musica religiosa e pubblica il primo disco dal sound eletrrico nel 1954. Il resto è storia del rock, con tutti i cliché del caso: alcolismo, droghe, controversie, sette matrimoni, fra cui quello scandaloso con la cugina tredicenne Myra Gale Brown, un tentato omicidio – sparò al suo bassista, che fortunatamente non morì – la riscoperta di Gesù, la reinvenzione come musicista country. Nel mezzo dichiarazioni arroganti e una musica elettrica indimenticabile, che con pezzi come Great Balls of Fires e Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, ha segnato intere generazioni di americani e non.
Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind è un’opera rock agiografica
Il materiale è tanto e ci si potrebbero imbastire su numerosi discorsi. Coen invece opta per un altro approccio. Racconta Lewis solo attraverso materiale di repertorio e interviste al musicista stesso – con l’unica eccezione di un’intervista, in una trasmissione televisiva degli anni ottanta, alla Brown – intervallando il tutto con spezzoni di esibizioni live di Lewis. O forse sarebbe più corretto dire che Coen costruisce un collage di esibizioni di Lewis, intramezzandolo con spezzoni di interviste. La musica e le performance del musicista infatti sono ciò che interessa al regista. L’intero lavoro ha un montaggio serrato, costruito sui ritmi frenetici delle canzoni di Lewis, così da configurarsi come una sorta di opera rock più che un vero documentario. Le interviste sono frammenti di tempi passati/mitici che si inseriscono per tratteggiare superficialmente la figura larger than life del creatore di quella musica. Non si tratta tanto di un’analisi critica, per esempio, del contesto da cui nasce il rock o del valore culturale che può aver avuto. Nè è un tentativo di fare luce sulla controversa biografia del musicista. Il lavoro di Coen è una sorta di ritratto fantastico che esalta l’oggetto del suo sguardo, in quanto mito della cultura pop, accettandone gli aspetti più oscuri e anzi integrandoli in una narrazione che li prevede, in quanto topoi imprescindibili della figura del rocker maledetto.
Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind: valutazione e conclusione
Per chi non è avvezzo alla musica di Lewis o al cinema di Coen, l’interesse di un simile lavoro consiste forse nel fatto che da esso traspare tutta l’ambiguità del culto delle celebrità, sui cui l’industria culturale statunitense costruisce il proprio potere. Lewis diventa quasi una figura dell’immaginario (non più uomo reale) che in virtù del suo potere creativo, cioè della sua capacità di far guadagnare soldi al sistema dell’intrattenimento, può tutto. Le sue affermazioni spesso sfiorano l’egocentrismo megalomane – come quando denigra Elvis – e i suoi discorsi spirituali, legati alla riscoperta della cristianità, quando non sono banali esternazioni da manuale di self-help bigotto rasentano il delirio mistico. Eppure gli si perdona tutto. Lo si ascolta come fosse un profeta sul punto di svelare una qualche verità e lo si ammira per aver guadagnato milioni, facendo ballare una classe medio/bassa bianca, al suono di una musica che prendeva i suoi stilemi da quella degli afroamericani, in anni in cui negli Stati Uniti, questi ultimi venivano discriminati e segregati. Insomma Coen ha prodotto con questo Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind, l’ennesimo testo agiografico di un’industria culturale che non perde occasione per autocelebrare la propria mitologia fatua. Forse risulta più interessante, allora, un film apertamente di finzione, come Great Balls of Fire (McBride, 1989), che almeno si prende la briga di romanzare apertamente la storia di Lewis per venderne il santino.