Judas and the Black Messiah: recensione del film candidato agli Oscar
Judas and the Black Messiah è disponibile a pagamento sulle maggiori OTT (Sky Primafila, Prime Video, YouTube, Google Play).
Il cinema, che strumento magnifico. Parole, musiche, suoni e immagini si mescolano per creare l’arte. Quando questo avviene, tutto si presenta a noi come un puzzle completo, perfetto nella sua commistione di elementi eterogenei. Judas and the Black Messiah è in tal senso una sinfonia. Le parole scandiscono con ritmo il film fino a farlo diventare una canzone; la musica si fa quadro, immagini. È un inno alla resilienza, al non dimenticare ciò che è stato e che ancora oggi è. La discriminazione, come le disuguaglianze sociali ed etniche affliggono il mondo moderno come all’ora. Il regista Shaka King dirige un’opera dedita al ricordo, ad una memoria che non può essere solo dei pochi, ma di tutti.
Judas and the Black Messiah ci insegna ancora una volta come la storia sia raccontata dai vincitori. Omissione e mutamento dei fatti, retoriche costruite ai danni dei più, sotto l’inno della grandezza di una nazione. La storia è storia, e quella che il film racconta è stata condannata non poco tempo fa. Eppure, bisogna rammentarla, raccontarla nuovamente quando il tempo lo richiede. E allora l’opera di King si inserisce in quel filone che ha contraddistinto gli ultimi anni, da BlacKkKlansman a Da 5 Bloods, da Il processo ai Chicago 7 fino a One Night in Miami. Ciò che accomuna queste produzioni è il razzismo viscerale che contamina un popolo, un odio ingiustificato mosso da false premesse e costrutti sociali fin troppo (e purtroppo) radicati nella società. Judas and the Black Messiah va oltre, raccontando l’ingiustizia sociale, la ghettizzazione e la lotta dei movimenti sociali e proletari contro le istituzioni, la polizia e l’FBI. Il film mostra luci e ombre della lotta di Fred Hampton e delle sue Pantere Nere, come il lato più oscuro dell’FBI comandata da J. Edgar Hoover.
J. Edgar Hoover e la guerra contro il nuovo messia nero
Anni ’60, J. Edgar Hoover (Martin Sheen) è intenzionato a bloccare l’avanzata dei movimenti proletari e sociali degli afroamericani. La sua missione è impedire l’avvento di un nuovo messia nero, di un leader caparbio che possa ribaltare lo status quo. Martin Luther King e Malcom X hanno lasciato un grande vuoto che sembra possa essere riempito dal giovane e caparbio Fred Hampton (Daniel Kaluuya), presidente delle Pantere Nere dell’Illinois. Quando Bill O’Neal (Lakeith Stanfield) viene arrestato per vari furti d’auto, l’agenzia governativa è già sul posto, pronta ad arruolarlo. L’agente dell’FBI Roy Mitchell (Jesse Plemons) gli propone di lavorare sotto copertura nelle file delle Pantere Nere, e così riferire ogni possibile informazione utile per contrastare il movimento.
Judas and the Black Messiah copre tre anni di lotte, successi e scontri armati delle Pantere Nere, mentre tra loro si aggirava la talpa che avrebbe cambiato tutto. Il film identifica Hampton, appunto, come il nuovo Messia e O’Neal come il giuda che lo tradirà per trenta monete d’argento. Il razzismo non è qui mostrato dal singolo, o gruppi popolari, ma è puro razzismo istituzionalizzato; quello che va a incidere nella vita di tutti i giorni, nella provvidenza sociale, nella scuola, nel lavoro e nella giustizia. Ma non è solo questo, la lotta di Hampton non è solo contro l’odio razziale. È la lotta di classe che non ha colore contro un’establishment bianco. È la coalizione arcobaleno che prende vita, multi-etnica e anti-razzista. Un movimento che ha le mani sporche di sangue, perché per loro la lotta armata è l’unica via, ma non è solo questo. Perché il film ci mostra quello che si è andato a costruire a favore della comunità, dalle scuole ai centri umanitari fino agli ospedali.
Un cast eccezionale, in grado di catturare la profondità della lotta di classe
Judas and the Black Messiah vive di un cast eccezionale, in primis il Fred Hampton di Daniel Kaluuya. Non stupisce il Golden Globe come migliore attore protagonista. L’attore conquista lo schermo, e la sua voce e le sue parole lo fanno vibrare sotto un peso enorme. Volto graffiante e spalle incurvate, Kaluuya veste perfettamente i panni del rivoluzionario; stanco ed energico allo stesso tempo. Gli inni di Hampton, come le frasi più dolci, danno ritmo alla narrazione, la cullano in una danza musicale. La sua controparte, quella “nemesi” annunciata dal titolo, ha il volto di Lakeith Stanfield che riesce ad assorbire tutta la forza e la frustrazione di un uomo. Un uomo che ha combattuto per le Pantere Nere, un uomo che ha tradito le Pantere Nere. Bill O’Neal è stato entrambi, due facce della stessa medaglia. L’incarnazione di uno stato ambiguo, insidioso.
Il film gioca bene sulle contrapposizioni, laddove Fred trova i suoi momenti di intimità con la moglie, la Deborah Johnson interpretata da Dominique Fishback, Bill li trova nel suo referente, Roy. Da una parte la vita, dall’altra la sofferenza. O’Neal deve fare i conti con il suo ruolo fuori e dentro le mura delle Pantere Nere. Jesse Plemons dimostra ancora una volta la sua bravura, impersonando un personaggio complesso, insidioso e ambiguo. Roy Mitchell non svela mai le sue carte, è il suo volto farlo. Svolge il suo lavoro con dedizione, fino alla fine, ma in alcuni momenti il film non sembra condannarlo fino in fondo; perché alla fine è la pedina, come tante altre, di un gioco più grande.
Judas and the Black Messiah, un film diretto con la maestria di un’artigiano
La storia è lineare, non molto diversa da altri film di genere. Una semplicità narrativa che trova piena forza nella forma. La regia di Shaka King è avvolgente, la camera si avvicina e si allontana senza mai perdere il centro del suo interesse. Judas and the Black Messiah vive di scene davvero interessanti, realizzate da un fine artigiano. Il regista ha coscienza di ciò che racconta, conosce la sua creatura, e solo a tal punto montaggio e fotografia posso lavorare di conseguenza. Il primo dà cadenza e ritmo alla danza del film, il secondo gli dona spessore, forma e colore. E allora quelle sei candidature agli Oscar sono più che giustificate, per quanto sappiamo che un premio o una statuetta non fanno un film.
Judas and the Black Messiah sceglie infine la via delle immagini di repertorio, al vero Bill O’Neal davanti alla camera nella sua prima e ultima intervista. Qui, l’uomo, dichiara di aver lottato per le Pantere Nere, ed è questo il messaggio che vuole lasciare ai posteri. La sua guerra interiore non si è mai esaurita, non è mai giunta a conclusione, e per lui quegli anni nelle fila del movimento hanno avuto un senso, un peso profondo. Il film è un aperto grido all’ingiustizia, dove l’essere umano (nella sua forma più pura) non viene mai condannato del tutto. Si condannano le sue azioni, ma se ne comprendono le motivazioni, le sue luci e le sue ombre più oscure.
Judas and the Black Messiah è disponibile a pagamento sulle maggiori OTT (Sky Primafila, Prime Video, YouTube, Google Play).