Juniper – Un bicchiere di gin: recensione del film con Charlotte Rampling
Un film che ci porta, ora dolcemente ora dolentemente, dove attendevamo di andare.
Da giovedì 3 ottobre 2024 nelle sale il film Juniper – Un bicchiere di gin: storia di un’ex fotografa di guerra che chiede al nipote adolescente di accompagnarla nell’ultimo tratto del suo viale del tramonto. In attesa di una nuova alba che non potrà vedere, ma sulla quale intende scommettere.
A Ruth, ex fotografa di guerra bloccata su una sedia a rotelle, donna un tempo indipendente ora costretta ad affidarsi a un’infermiera, Sarah, che la porti in bagno e la sorvegli, non resta che bere la sua miscela di acqua e gin e, col drink, deglutire d’un colpo l’esasperazione di sapersi insieme immobile e rovinosamente precipitata verso la perdita di sé. Al reverendo anglicano che insiste perché si confessi dice di non avere rimpianti, e in effetti l’unica cosa di cui sembra rammaricarsi è non poter contare di continuare a fare “disastri”. A quelli pensa ora il nipote Sam, diciassettenne, orfano di madre trascurato dal padre che ne delega l’educazione al collegio, un ragazzo bello e imbronciato che piace alle ragazze, ma non le bacia, chiuso nella sua rabbia di adolescente ferito dall’indifferenza paterna e strappato troppo presto alle consolatorie tenerezze materne.
Juniper: un film antispettacolare che spegne il melodramma in toni monocordi per permettere a un legame di costruirsi nei suoi tempi naturali
La relazione tra nonna e nipote, che si conoscevano poco a causa della distanza geografica – Ruth viveva in Europa, figlio e nipote in Nuova Zelanda – e ora sono costretti dalla circostanza di un duplice viaggio – la nonna che raggiunge la Nuova Zelanda, il padre di Sam, figlio della donna, che invece se ne torna in Europa – a passare insieme qualche giorno, si rivela percorribile solo grazie alla sfida del giovane alla superbia dell’anziana, prepotente e cocciuta nel rivendicare l’abbandono masochistico a un piacere – l’alcool, sorbito a dosi massicce – forse vizioso o forse necessario a lenire il dolore di aver perso il controllo sulla vita, il potere di domarla, di provare a darle la direzione desiderata. Il nipote viene al mondo, abbozzo di adulto, smarrendo i suoi propositi suicidi di fronte all’emergenza di un’urgenza accuditiva nei confronti della nonna senescente, mentre la nonna da quel mondo esce, consapevole di aver fatto sempre ciò che voleva facendo pagare anche agli altri il prezzo del suo egoismo, e tuttavia, è proprio il personaggio burbero di Ruth a restituire un esempio di generosità disinteressata nell’accompagnare il nipote dentro le fauci spalancate della morte, nel permettergli di annusare l’alito che proviene da quell’incavatura senza ritorno perché si risvegli tempestivamente dal suo torpore depressivo e impari a godersi l’alba: la bellezza spiccia e senza abbagli della sua vita che nasce.
Juniper – Un bicchiere di gin: valutazione e conclusione
Juniper, film di Matthew J. Saville con Charlotte Rampling nel ruolo di protagonista, segue senza sbandamenti e secondo un gusto antispettacolare ed elegantemente convenzionale, la linea retta di una drammaturgia per programma priva di acuti, monocorde nel suo tono grave, costruendo con pazienza, secondo tempistiche naturali, dialogo dopo dialogo, rivelazione affettiva dopo rivelazione affettiva, un legame che infrange il rispecchiamento tra vitalità compresse, per permettere a entrambe, quella immatura e quella ipermatura, di lasciare e lasciarsi andare: ciascuna al proprio destino di trasformazione, verso la fine o verso l’inizio. Una fine, quella fisica della donna, ma anche della pressione di un passato che insiste, che rende possibile l’inizio, quello esistenziale del nipote: per (ri)cominciare, bisogna prima finire. E finirla. Di bere troppo gin, di illudersi di poter tornare ‘in guerra’, di rifiutarsi di confessare i propri sbagli e i propri non detti amorosi, di cercare la morte come via di fuga dalla responsabilità di un’esistenza che non si era chiesta in dono – o debito – e che si immaginava diversa, di evitare quella stessa morte che incombe e può farsi insopportabile soprattutto se differita da un troppo prolungato tramonto a cui non può seguire nessuna alba, se non quella visibile agli occhi di qualcun altro. E allora vale la pena aprire quegli occhi mentre ci si abitua a pensare i propri, che così tanto hanno osservato e fotografato, chiusi per sempre. Il film ci porta, ora dolcemente ora dolentemente, dove attendevamo di andare, suggerendo soltanto, in modo per così dire sussurrato e pressoché inavvertibile, il miracolo di un cambiamento reso possibile dall’incontro tra opposti generazionali che si riconoscono legati non esclusivamente dal sangue, ma dalla scelta di somigliarsi e di volersi bene, di non respingere la reciproca, per quanto transitoria, necessità.