Kadaver: recensione del film norvegese Netflix
In piena carestia post-atomica, uno spettacolo teatrale in un hotel di lusso attira gli abitanti della città garantendo un ricco banchetto. Ma dietro a quella facile promessa si nasconde una spaventosa verità...
Supponiamo che una devastante guerra nucleare abbia ridotto il mondo in rovina. Supponiamo che a nessuno sia più rimasto nulla, e che le città siano semplicemente un cumulo di macerie e palazzi abbandonati. Quale sarebbe il vostro primo e più urgente bisogno? Probabilmente – ancora prima di avere un tetto sulla testa – sarebbe quello di mangiare, di procurarsi quotidianamente del cibo per la minima sopravvivenza. Il film disponibile su Netflix Kadaver di Jarand Herdal parte da questo assunto, e in breve accantona lo sfacelo del pianeta devastato per portarci nei territori chiusi e cupi della claustrofobia.
Seguiamo la giornata di una giovane coppia, formata da Leonora e Jacob, e della loro bambina Alice. Oltre al bisogno alimentare, occorre non spaventare la piccola più di quanto non lo sia già; a tenere accesa la fiamma della fantasia ci pensa la mamma, che memore del suo passato da attrice cerca il più possibile di ricondurre il disastro attuale ai canoni del gioco e dello scherzo. Fino a quando, per strada, un uomo esorta tutti i superstiti a partecipare alla festa del fantomatico Mathias, all’interno della sua altrettanto irreale villa.
Kadaver: Post-Apocalypse Now
Kadaver sembra, nel suo incipit, muoversi all’interno dei territori dell’horror, complice anche l’ambientazione da “fine del mondo”. Tuttavia, col passare dei minuti, si passa più che altro al thriller psicologico: il mecenate Mathias promette panem et circenses, ovvero una ricca cena per tutti a cui seguirà uno spettacolo di natura teatrale. Ma come può offrire un banchetto così ricco, mentre fuori mancano anche le briciole? Ci si può fidare? A questo punto il regista Jarand Herald innesta un’idea interessante: tutto – ma proprio tutto – sembra suggerire sfiducia e malafede, dalla profonda tristezza della magione all’esibita malvagità del medesimo Mathias.
Eppure i due protagonisti si lasciano andare, tutto sommato consapevoli di sfuggire per qualche ora ad un orrore per ricacciarsi in un’altra situazione che sarà foriera di disagio. Come a dire che pur di modificare la propria disperata condizione è necessario essere sempre pronti a rischiare, costi quel che costi. Del resto Leonora è un’ottimista riluttante (mentre il compagno è un pessimista depresso), che sostiene come si debbano affrontare le proprie paure per non essere poi più spaventati da ciò che ci circonda.
Alice nel Paese degli Orrori
Il film di Herald vive quindi di suggestioni e di piccole intuizioni, immerse in verità in un mare di citazionismo colto che priva la pellicola – gioco forza – di originalità. Guardando Kadaver vengono in mente anzitutto Delicatessen (1991) e 2022: i sopravvissuti (1973). E, naturalmente, Alice nel Paese delle Meraviglie, nel momento in cui la bimba si perde nei meandri del castello e inizia per i genitori una caccia disperata che li porrà di fronte a svariate terribili verità di cui non erano a conoscenza. Peccato che il loro stupore difficilmente corrisponda al nostro, visto che la maggior parte delle svolte sono risapute e facilmente prevedibili.
Più che per i suoi messaggi proto-filosofici (“Cosa ci rende umani? L’amore? La speranza? La sconfitta?”), Kadaver vince la sua scommessa per la sua componente estetica e visiva: il lavoro fatto sui colori – il bianco a simboleggiare la catarsi, il rosso l’oppressione, il verde l’inganno – è stuzzicante e stimolante, così come l’alternarsi di cupe zone d’ombra e luminose aperture alla luce per rappresentare la spinta verso la vita contrapposta alla morte incombente. Un film in cui trionfano la forza delle immagini e la raffinatezza delle atmosfere, dunque, non del tutto sorretto da una trama all’altezza delle aspettative iniziali.