TFF41 – Kalak: recensione del film di Isabella Eklof
Jan, infermiere 40enne danese appena trasferitosi in Groenlandia con la famiglia, ha apparentemente tutto ciò che potrebbe desiderare. Ma un trauma passato lo tormenta. Un trauma che è giunto il momento di affrontare.
Cosa nasconde esattamente Jan, il protagonista di Kalak, il film di Isabella Eklöf, cosa si cela dietro quel sorriso spento al contempo rassicurante e inquietante? Un trauma indicibile, innominabile, che ne ha inevitabilmente condizionato l’esistenza: la violenza sessuale perpetrata dal padre, quando lui era poco più di un adolescente. Un elemento del quale veniamo messi subito a conoscenza, come un fardello da condividere con il protagonista e solo con lui, visto che nessun altro – all’interno della sua vita apparentemente pacificata e placida – ne è al corrente.
Kalak, presentato in concorso al San Sebastian Film Festival e passato nella competizione ufficiale del 41° Torino Film Festival, è uno choc visivo e umano, un complesso puzzle che prende forma pezzo dopo pezzo davanti ai nostri occhi. Un cupo disvelamento vissuto attraverso gesti, sguardi e azioni inattese, che colpisce ancora di più sapendo che si tratta dell’adattamento di un romanzo autobiografico, quello che Kim Leine ha scritto nel 2007 sugli abusi incestuosi.
Kalak: alla ricerca di un’identità, tra i ghiacci della Groenlandia
Ambientato in Groenlandia a cavallo tra 1999 e 2000, il film di Isabella Eklof – al suo secondo lungometraggio da regista, ma conosciuta al grande pubblico principalmente per la sceneggiatura di Border – Creature di confine (2018) – è un osservatorio psicologico serio e audace sui tormenti del nostro passato. Un’opera disseminata di “sintomi”: l’angoscia di Jan, ora infermiere 40enne con moglie e figli, si svela con l’irrequietezza notturna, ad esempio, o con il continuo bisogno di relazioni extraconiugali, che la compagna Laerke tollera (o finge di tollerare) tranquillamente.
D’altro canto Jan, figura brutalizzata e a sua volta brutalizzante, porta sempre con sé il sorriso gentile, quasi beatifico, di un pazzo dostoevskiano. Un’anima in pena in cerca di continue conferme, che cerca di integrarsi nella cultura locale diventando un kalak, termine che in groenlandese contiene il doppio significato di “vero” e di “sporco”. Jan si autoconvince di poter essere un kalak, ne ha bisogno, perché solo così crede di poter saziare la sua necessità di amare e di essere amato, accettato e riconosciuto dalla comunità.
Kalak: cronaca di una sconfitta o anatomia di una catarsi?
Come è solita ricordare la stessa regista, il personaggio principale di Kalak cerca la stessa cosa in tutti: qualcuno che lo veda per quello che è e lo accetti comunque. E in questo senso, quindi, il suo film finisce per essere un viaggio; un viaggio emotivo attraverso il cuore del suo protagonista, attraverso le sue ricerche e la solitudine che lo circonda, e con esso una commovente indagine nei luoghi oscuri dell’anima. Non è un caso che tutte le amanti di Jan siano come lui: sole, desiderose di una fuga attraverso l’altro. È questa probabilmente la vittoria principale di Kalak: il tratteggio e la costruzione dei caratteri e delle loro complessità, il mondo emotivo, i conflitti, le sfumature, le nature contraddittorie, la capacità di ferirsi e allo stesso tempo di amarsi.
All’inizio del film, in una scena slegata dal resto della narrazione, assistiamo a una lezione di danza tradizionale groenlandese. L’insegnante si dipinge il viso per ballare la “danza della maschera”. La maschera è composta da tre elementi, spiega: la commedia, la sessualità e il regno degli spiriti (ovvero l’ignoto). Quello che vedremo in seguito, cioè la vicenda di Jan, non è altro che la spiegazione di questa simbologia. Che ci riguarda tutti, che ci investe e ci mette a disagio. Sconfitta o catarsi? Entrambe. A volte bisogna ammettere la sconfitta per ricominciare e risollevarsi; a volte ci vuole molto dolore e disperazione per rompere i legami incredibilmente forti delle abitudini emotive.
Kalak: valutazione e conclusione
Tratto da una storia vera e dal romanzo autobiografico di Kim Leine, Kalak è un film che mette a disagio emotivo e psicologico: la storia dell’infermiere Jan, che da adolescente ha subito un abuso sessuale da parte del padre pedofilo, è raccontata con semplicità e delicatezza, con un tono cupo ed esistenzialista che è allo stesso tempo tenero e con un po’ di umorismo, muovendosi tra leggerezza e profondità. Il film parla della solitudine intrinseca dell’essere umano, del desiderio di amare ed essere amati, di questa ricerca attraverso il sesso, il riconoscimento e la compagnia dell’altro. La regista Isabella Eklof e il direttore della fotografia Nadim Carlsen catturano la bellezza desolata e proibitiva di un paesaggio in cui le case si incastrano tra gli affioramenti rocciosi e le aree urbane sembrano perennemente incompiute. Un film scomodo, destinato a restare impresso nella memoria dello spettatore anche dopo i titoli di coda.