Killer Heat: recensione del film Prime Video con Joseph Gordon-Levitt
La recensione dell’adattamento del racconto breve L’uomo geloso di Jo Nesbø, portato sullo schermo da Philippe Lacôte e interpretato da Joseph Gordon-Levitt. Dal 26 settembre 2024 su Prime Video.
La straordinaria produzione letteraria di Jo Nesbø, considerato tra i maestri del noir scandinavo, ha fornito e continua a fornire tanta materia narrativa fatta da storie e personaggi all’industria dell’audiovisivo. Numerose sono infatti le trasposizioni per il grande e/o piccolo schermo realizzate alle diverse latitudini dai suoi scritti, tra cui L’uomo di neve, Headhunters e The Hanging Sun. La più recente è quella che Philippe Lacôte ha forgiato dalle pagine de L’uomo geloso, un racconto breve inserito in un’antologia pubblicata nel 2021 con il titolo Gelosia, approdata direttamente in streaming su Prime Video dove ha debuttato il 26 settembre 2024 con il titolo Killer Heat.
Killer Heat: l’assenza totale di tensione in un film che ha nel proprio DNA una fusione di generi in cui il thriller detta le regole d’ingaggio e si intreccia con il noir moderno e l’hard-boiled rappresenta una grave mancanza
La mancata uscita nei cinema di un film con un tale pedigree, che oltre alla prestigiosa firma sulla matrice originale dello scrittore norvegese poteva contare anche sul contributo alla causa del regista ivoriano (già autore del teso dramma Run e dell’affascinante La nuit des rois) e di un cast di all stars composto tra gli altri da Joseph Gordon-Levitt, Shailene Woodley e Richard Madden, ha suonato come un campanello d’allarme che ha anticipato l’arrivo di una forte puzza di bruciato. Non è la prima volta che una pellicola per volontà della produzione e/o della distribuzione bypassa la sala a favore dell’immediato rilascio sul web, ma che per un progetto con simili carte da giocare come Killer Heat si decida di prendere la suddetta strada qualche dubbio sulle sue qualità non può non sorgere. E infatti nonostante gli ingredienti a disposizione e il fatto che dietro l’adattamento e il processo di riscrittura vi fossero due pesi massimi del calibro di Roberto Bentivegna (co-autore di House of Gucci) e Matt Charman (co-autore de Il ponte delle spie), il risultato purtroppo ha confermato i dubbi e quelle che erano le poco incoraggianti voci di corridoio circolate nei mesi e nelle settimane precedenti all’approdo sulla piattaforma. Al termine della visione l’impressione è quella di avere assistito a un qualsiasi episodio televisivo di una serie poliziesca a causa degli eventi sempre più scialbi che accompagnano lo spettatore di turno verso un epilogo prevedibile nonostante un paio di colpi a sorpresa piazzati in zona Cesarini. Nel mezzo una sola scena d’azione realizzata dozzinalmente e una tensione quale grande e pesante assente non giustificata, che per un film che ha nel proprio DNA una fusione di generi in cui il thriller detta le regole d’ingaggio e si intreccia con il noir moderno e l’hard-boiled rappresenta una grave mancanza.
La struttura narrativa e le dinamiche del film sono il frutto di un assemblaggio di stilemi dei generi chiamati in causa e di personaggi stereotipati
Se nel suo racconto Nesbø pur attingendo ai cliché dei generi chiamati in causa era riuscito a dosarli e a farne un uso funzionale, nell’adattamento l’aggrapparsi ancora più saldamente ad essi li rende fini a se stessi e meramente accessori. Questo rende la struttura narrativa e le dinamiche di Killer Heat un assemblaggio di stilemi e di personaggi stereotipati (un detective privato, una femme fatale, due gemelli monozigoti di cui uno vivo e uno morto chissà come) che coesistono per forza di inerzia, consegnando al fruitore un mistery dal potenziale non sfruttato che per coloro che hanno memoria della matrice lascia non poco amaro in bacca per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Al pubblico non resterà altro che una sensazione di déjà-vu piuttosto che di novità, o quantomeno di un mancato coinvolgimento rispetto a una tipologia di storia che da questo punto di vista potrebbe offrire tanto, ma che al contrario si è limitata a consegnare una visione superficiale di un thriller che avrebbe potuto brillare sotto il sole greco ma che suo e nostro malgrado si rivela un intrigo meccanico e forzato.
L’esito vanifica quanto di potenzialmente intrigante e coinvolgente era stato messo a disposizione dal racconto breve di Jo Nesbø dal quale Killer Heat è tratto
Ambientato nell’assolata e misteriosa Creta, cornice di un caso di morte apparentemente accidentale di un giovane magnate sul quale è chiamato su richiesta della cognata della vittima a indagare un detective privato dal passato travagliato, Killer Heat aveva infatti nella dicotomia tra la bellezza mozzafiato delle isole greche e l’orrore di una vicenda di sangue intrisa di oscurità e dolore (torna alla mente Glass Onion – Knives Out) un ottimo punto di partenza. La sceneggiatura fa riferimento a tensioni sociali più ampie che vanno oltre il caso in questione, mettendo in risalto il contrasto tra la bellezza idilliaca della location e i disprezzabili intrighi che si annidano al suo interno che fanno riferimento a segreti inconfessabili e a conflitti familiari insanabili. La gelosia, come suggerisce il titolo originale della storia, è una delle chiavi di lettura della vicenda, ma che a conti fatti diventa solo un potenziale movente che spinge lo spettatore verso la chiusura del cerchio. Il tutto in effetti verrà vanificato da un’esecuzione sia narrativa che tecnica monotona e avara di sussulti degni di nota, con un voice-over del protagonista alla lunga fastidioso e una regia priva di stile e ritmo.
Killer Heat: valutazione e conclusione
Una storia targata Jo Nesbø, un regista di talento come l’ivoriano Philippe Lacôte, la bellezza mozzafiato delle isole greche come cornice e un cast di all stars composto tra gli altri da Joseph Gordon-Levitt, Shailene Woodley e Richard Madden, non bastano a Killer Heat a soddisfare le aspettative degli amanti del thriller ad alto voltaggio. L’esito sia narrativamente che tecnicamente vanifica quanto di potenzialmente buono era stato messo a disposizione dal racconto breve firmato dal celebre scrittore norvegese, con l’adattamento che si presenta al pubblico come un assemblaggio fine a se stesso di stilemi e di personaggi stereotipati che fanno capo ai generi di riferimento, ossia il giallo, l’hard-boiled e il noir moderno, qui debolmente mescolati. Prima di un epilogo che tenta il disperato colpo a sorpresa in zona Cesarini per provare a cambiare le sorti di un risultato deludente su più fronti, compreso quello tecnico, la scrittura si gioca la carta dei segreti di famiglia e della gelosia come motore portante, ma a conti fatti il tutto si rivela prevedibile e poco coinvolgente a causa di un intrigo privo di tensione e di una regia manchevole di ritmo e di soluzioni degne di nota. A farne le spese sono anche gli interpreti, con quelli chiamati in causa che appaiono lontani parenti e fotocopie sbiadite di ciò che hanno dimostrato nelle performance precedenti.