Venezia 80 – L’avamposto: recensione del documentario di Edoardo Morabito
Un documentario sull'attività dell'eco-attivista Christopher Clark, fondatore di una comunità utopica in Amazzonia, avamposto a difesa della foresta.
Nella sezione Eventi Speciali delle Giornate degli Autori del Festival del Cinema di Venezia 2023 è presente il documentario L’avamposto, di Edoardo Morabito, prodotto da Dugong Films e Rai Cinema.
L’avamposto racconta essenzialmente una contraddizione: il tentativo di Christopher Clark, eco-attivista di lungo corso, di salvare un pezzo di foresta amazzonica attraverso l’utilizzo dei mezzi del capitalismo, primo motore della distruzione della foresta stessa. Clark infatti ha tentato, negli anni, di costruire un piccolo villaggio indipendente popolato da caboclos, nell’area di Xixuaù. I cablocos sono una popolazione di meticci, emarginati sia dai nativi indios che dai brasiliani. Mosso da una sorta di affinità spirituale verso una simile condizione, lo scozzese Clark decise di aiutarli a emanciparsi attraverso la costruzione di una comunità utopica, fondata sull’uguaglianza e su una vita in simbiosi con la natura. Per finanziare tutto ciò, trasformò i caboclos da pescatori di frodo e agricoltori in guide turistiche e mise su un business di viaggi, per quei ricchi occidentali che avessero voluto conoscere la foresta amazzonica. Lo scopo ultimo di questa impresa era quello di rendere la zona di Xixuaù una riserva naturale protetta, così da porre un limite allo sfruttamento del suo legname e alla piaga degli incendi. Tale progetto però venne osteggiato, per anni, dal governo brasiliano e Clark si convinse che un ottimo modo per raggiungere il suo scopo potesse essere quello di organizzare un concerto/evento (sempre per ricchi) dei Pink Floyd. Il concerto non ci fu mai, ma alla fine il governo rese Xixuaù una riserva protetta nel 2018.
L’avamposto: l’uomo bianco (non) salverà il verde.
Fin da questa sinossi risultano evidenti alcune problematicità, intrinseche alla figura di Clark e ai suoi metodi. Tendenzialmente l’eco-attivista ha imposto una visione occidentale, legata ai concetti di uguaglianza e simbiosi con la natura, tipici della borghesia upperclass anglosassone, a un popolo indigeno. Nel momento in cui la sua piccola utopia non ha dato i risultati sperati, in maniera paternalistica ha liquidato i caboclos come dei bambini che giocano a fare gli adulti e ha rivolto le sue attenzioni al progetto del concerto. Ovvero il lavoro di Clark, per quanto latore di indubbi vantaggi per i caboclos, non ha mai avuto un reale intento emancipatore. Esso appare basato sul perpetuarsi di quella deleteria ideologia colonialista, che vede nell’indigeno un soggetto inferiore – in questo caso, invece che da conquistare, da salvare – a cui insegnare addirittura come vivere in simbiosi con la natura e a quali orpelli della modernità rinunciare. Insomma siamo dalle parti del mito del buon selvaggio che non rispetta le aspettative dell’uomo bianco illuminato. Lo stesso interesse che Clark mostra per la foresta amazzonica ha un qualcosa di misantropico e ossessivo.
Christopher Clark: folle e idealista
Morabito non solo riconosce tutte queste problematicità sottolineandole, con un voice over, durante la narrazione, ma, molto saggiamente, decide di raccontarle attraverso un linguaggio filmico che solo apparentemente si rifà alla sintassi documentaristica. In realtà attraverso l’utilizzo di un montaggio dai tempi contemplativi, di immagini della natura che privilegiano le forme astratte e dell’uso delle immagini del fiume come tema visivo ricorrente che punteggia la narrazione, il regista crea un’opera dal piglio prima poetico e poi satirico, che si concentra sul personaggio di Clark, trattandolo come l’eroe folle e idealista di un film dell’Herzog di Fitzcarraldo (1982) e Cobra Verde (1987). Un uomo ossessionato dal sogno di poter vivere la propria vita immerso in una natura romantica – in senso letterario, dunque fittizia e idealizzata. Egli vorrebbe persino salvare tale natura, o almeno salvarne una piccola parte, dallo sfruttamento attuato da quella sua stessa cultura di provenienza, che ha generato quel sogno. Ovvero la cultura borghese/capitalista, che nella sua componente progressista post-sessantottina, si rifugia in una fuga esotica dalla civiltà occidentale.
Questa ossessione ci è mostrata in maniera sottile ma implacabile. Morabito inizia la narrazione come una sorta di esaltazione dell’opera di Clark. Lentamente, man mano che lo sguardo della macchina da presa si addentra nella foresta lungo il fiume, fa però emergere i lati più critici della personalità del suo eroe, fino ad arrivare alla parte finale del film dove il “personaggio Clark” viene decostruito. In questa sezione vediamo infatti il protagonista in Inghilterra, alla disperata ricerca di fondi e di un appuntamento con Roger Waters o David Gilmour dei Pink Floyd. Cioè vediamo un uomo, che con disprezzo antiborghese aveva abbandonato una realtà socioeconomica specifica, tornare all’ovile della ricca borghesia, per elemosinarne il denaro e la benevolenza, a volte in maniera anche ridicola.
L’avamposto: valutazione e conclusione
In definitiva, L’avamposto di Morabito è la documentazione visiva dell’impossibilità, per gli occidentali, di sfuggire al proprio retaggio coloniale. Il film implica che la salvezza della natura o l’emancipazione di intere popolazioni, nell’ottica capitalista, non potranno che essere sempre delle piccole concessioni – delle riserve si salvano, ma il resto della foresta no – fatte ai sensi di colpa di una cattiva coscienza di classe. Inoltre anche queste concessioni finiscono per diventare nuove forme di sfruttamento, in quanto si configurano come oggetto economico della imperante spettacolarizzazione del reale. Poco importa che si tratti di usare la foresta amazzonica come una Disneyland ecosostenibile per adulti, come palco per un delirante concerto o come location di un documentario – ed è il regista stesso a sottolineare volontariamente quest’ultima criticità del proprio lavoro.