Venezia 80 – L’invenzione della neve: recensione del film di Vittorio Moroni

La recensione de L'invenzione della neve, il film di Vittorio Moroni presentato durante le Giornate degli autori di Venezia 80.

Alle Giornate degli autori di Venezia 80 è stato presentato L’invenzione della neve, un lungometraggio drammaturgicamente compiuto, di grande sensibilità estetica e di ancor più straordinaria potenza emotiva, diretto da Vittorio Moroni e illuminato dal virtuosismo di Elena Gigliotti, un’attrice di formazione teatrale – e si vede tutta! – che ci auguriamo di ritrovare più spesso al cinema. Se lo meriterebbe lei, ce lo meriteremmo noi spettatori.

Carmen è una donna che è stata bambina e che, dall’infanzia, non è mai tornata. Carmen è una donna che ha una bambina piccola, di nome Giada, avuta da un uomo che ha amato (da tossica e in modo tossico, si direbbe secondo una retorica oggi comune), forse ancora ama, di certo idealizza molto, un uomo con cui spera di poter ricostruire un nucleo famigliare – come rinsaldare un guscio spaccato in due – che la risarcisca di quel che lei non ha avuto da piccola – una famiglia – e le garantisca protezione dagli attacchi esterni, dalle ingerenze delle madri-severe, figure particolarmente prossime ai padri padroni, ai padri custodi di leggi implacabili. Carmen ha una tigre tatuata sulla schiena e di tigri imbratta le pareti delle stanze dei bambini amati: il nipote, la figlia. A quest’ultima ama raccontare la storia della giungla innevata: l’invenzione della neve permette alla mamma tigre e alla sua tigrotta di nascondersi e, così mimetizzate, di poter trascorrere insieme tutta la vita, libere dall’angoscia di minacce esterne.

L’invenzione della neve: un film sull’infanzia negata che dipende e diviene maternità negata, la cui drammaturgia è insieme solida e sensibile

L'invenzione della neve, recensione, Cinematographe.it
Elena Gigliotti è un’attrice calabrese (Catanzaro, 1987).

Il film di Vittorio Moroni, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nella rassegna “Giornate degli autori“, è un’opera sorprendente e sensibile: formalmente edificata in un territorio di confine tra cinema e teatro, si fonda su una drammaturgia che ricorda la lezione migliore dei tragediografi greci: esperienza di catarsi e di sospensione del giudizio e della sommaria spartizione di giusto e sbagliato, esperienza irriducibile tanto alla sola resa dei conti con l’inconscio quanto, ancor meno, a una riflessione civile razionalmente impostata. Carmen, su un palcoscenico, potrebbe diventare Medea e capirebbe perfettamente le sue ragioni. Eppure Carmen non può uscire da sé stessa, non può assumere nessun altro personaggio se non quello che la imprigiona a una malcelata vulnerabilità che trova fragile riparo in un’istrionismo ciarliero e sfidante, istrionismo che a volte suscita simpatia, altre esasperazione.

L’invenzione della neve è un film di infanzie ferite e mai risolte: sebbene sia destinato all’insuccesso per tutti abbandonare il bambino che si è stati, per alcuni è più difficile; per altri, come Carmen, impossibile. Carmen è stata una bambina strappata alla madre, ma quello strappo non è mai riuscita a ricucirlo: alla madre ha dedicato un altare, alla madre parla per trarre sollievo dai suoi sconquassi quotidiani, dalla sua incapacità di non sbagliare puntualmente, di non incagliarsi sempre negli stessi errori, nelle stesse distorsioni della sua domanda d’amore. Carmen non è come sua sorella maggiore, una donna che ha accettato il compromesso dell’addomesticamento per mettere a tacere i tormenti lontani, per dimenticare di soffrire per un dolore che è lì, resta piantonato, ma lei non vuole vedere più. Tanti sono gli animali in questo film, animali disegnati e animali reali: testimoniano con sbigottimento, sgranando o chiudendo gli occhi, i comportamenti di Carmen, le sue euforie che volgono in rabbia o in pianto, le sue grida lanciate a chi non può sentirle o formulate attraverso una grammatica troppo isterica perché possano essere credute portatrici di una richiesta di presa in carico, di un desiderio di essere vista, amata, non cancellata dagli altri significativi.

Nel mondo animale Carmen cerca uno specchio di quello che è, della sua indisponibilità a entrare nel mondo umano della legge e del contenimento, della repressione pulsionale, e nel mondo animale cerca una comprensione che gli esseri parlanti, forse proprio a causa di un continuo discorrere che uccide il sentire, non sono in grado di darle. Questo film, talvolta, s’inabissa in un fondale onirico, immersione possibile attraverso le figure fluttuanti e oblunghe di Gianluigi Toccafondo, figure straniate dall’angoscia nei volti che ora sembrano sorridere ora accigliarsi di perplessità o tristezza, un fondale, quello dei sogni e degli incubi, che, al pari del mondo animale parimenti evocato, sembrerebbe rimosso dai più, ed invece insiste con i suoi assilli e i suoi puntelli. L’invenzione della neve è, così, il racconto di due maternità impedite – Carmen è stata tolta a sua madre e, ugualmente, sua figlia è affidata al padre – e il dramma – ma possiamo anche scomodare un termine più aspro: tragedia – di un’impossibile accettazione di forme suppletive di maternità. All’assistente sociale, madre adottiva di una bambina indiana, Carmen fa notare che ai bambini tolti alle loro madri biologiche si fa credere che non siano pronti a rivederle, ma in verità a non essere pronti sono tutti gli altri, sono coloro che hanno deciso che un bambino, finché è alimentato e accudito, non ha bisogno di altro. Coloro che hanno catalogato i bisogni in maggiori e minori, spesso confondendo tra loro le tassonomie.

L’invenzione della neve: valutazione e conclusione

‘L’invenzione della neve’ è un film di Vittorio Moroni: è stato presentato a Venezia, all’interno delle Giornate degli autori.

Vittorio Moroni ci introduce a uno studio di donna senza né forzare la mano del regista né precipitare un’interpretazione clinica. Non pone mai la questione in termini diagnostici – neanche in senso drammaturgico: sulla protagonista, lui per primo non vuole sapere quale sia il ‘punto’ –; non ci presenta un caso-monstre, un ritratto psichiatrico, un exemplum di eccentricità borderline; non ci chiede di parteggiare per il suo personaggio o di provare risentimento nei confronti di chi, pur più arido, le ha tolto la figlia. Vittorio Moroni si mette in una posizione di ascolto e di attenzione, di attiva passività, accompagnando la sua attrice in un percorso che permetta anche a lui, insieme al suo pubblico, di comprendere Carmen, madre-bambina non per età ma per un’infanzia interrotta che non può e non vuole autoripararsi. Comprendere, nel significato etimologico di afferrare ciò che si vede, di tenere insieme elementi diversi in una visione di sintesi che, dalla distanza, intenda percettivamente, pre-giudizialmente.

Il regista permette così a chi guarda il suo film – una vera sorpresa – di seguire Carmen per quel che è, senza mai chiedersi perché o per come, come potrebbe essere o non potrebbe essere, ma semplicemente accogliendola e lasciandosi attraversare. Elena Gigliotti, l’attrice che ha assunto nel corpo questo personaggio larger-than-life, autentica eroina tragica, viene dal teatro e del teatro in questo film mette la capacità di attrarre, di conservare su di sé le attese di chi guarda, di alimentare la fiducia sulla sua sapienza di interprete-strega, e anzi l’impressione che a fine film residua è di aver assistito a un miracolo neanche tanto piccolo: aver confinato a uno schermo e votato all’infinitamente riproducibile l’irripetibilità di una magia performativa, di una prova maiuscola di virtuosismo attoriale che, attraverso il pieno controllo dei mezzi acquisiti per studio e mestiere, è in grado di restituire con precisione l’intensità di un’esistenza storta e ruggente, resistente a ogni forma di correzione.

Regia - 5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 5
Sonoro - 4
Emozione - 5

4.5