La città delle donne: recensione del film di Federico Fellini
La città delle donne è un film sul femminile, sul maschile, un film che analizza il contemporaneo, portando al centro dell'agone le idee delle donne.
Un uomo, una donna, un marito, una moglie. Un treno. Questi sono i tre ingredienti da cui parte La città delle donne, il film di Federico Fellini del 1980 che racconta di Snaporaz, un uomo maturo, incauto e indifeso, incarnato da Marcello Mastroianni, uno dei volti feticcio del cineasta, che scende dal treno dove sta viaggiando con la moglie Elena per seguire “la signora del treno” – che lo sconvolge e lo conturba. Fellini con questa pellicola si addentra nei pericolosi meandri del pianeta-donna, un pianeta di cui conosce le curve pericolose, le forme voluttuose, le ombre del volto, un corpo che è stato oggetto e soggetto delle sue fantasie e dei suoi turbamenti. Era un film difficile per il regista, una interessante scommessa, una rappresentazione che legge la realtà, l’attualità (il femminismo).
La città delle donne: un film sul femminile (moderno) e sul maschile (passato)
Il protagonista, anelante al corpo della donna del treno, entra in un albergo dove si sta svolgendo un congresso di femministe che parlano usando formule fisse, slogan, le parole da cui è nata l’ondata rivoluzionaria che ha modificato il modus vivendi, cogitandi della donna in rapporto a se stessa, al maschio e alla società. Snaporaz rappresenta il maschio comune (e quindi Fellini), quello che l’ha sempre bramata, desiderata in quanto tale, perché ne ha bramato le carni, il sesso, e per questo non riesce a capire: accetta le affermazioni e annuisce; tutto questo per averle senza rendersi conto che la dinamica uomo-donna si è modificata. L’uomo, a poco a poco, capisce che per lui è troppo, comprende che è il caso di fuggire e finisce nel castello di Katzone, un santone dell’eros che vive in un reliquario sessuale, popolato da femmine, simbolo della donna-oggetto. Dal castello Snaporaz finisce in un’aula di tribunale dove le femministe condannano gli uomini e passa in un’arena dove avrebbe dovuto essere linciato. Di nuovo riesce a fuggire su una mongolfiera con le fattezze di una donna fino a che non si risveglia sul treno, davanti alla moglie.
La città delle donne è un film sul femminile, sul maschile, un film che analizza il contemporaneo, porta al centro dell’agone le idee delle donne, l’odio che molte di quelle femministe avevano nei confronti dell’Uomo per molto tempo severo carceriere – e non è un caso che Snaporaz sia loro prigioniero -, animale bramoso di possederle senza se e senza ma – ora invece la situazione si è sessualmente ribilanciata; si pensi alla donna che cerca di possedere Snaporaz e il palpeggiamento della stessa quando si presenta nel castello vestita da poliziotta. L’uomo è intimidito da quella donna potente che non è più vittima dei baci, delle carezze, delle voglie maschili ma che è agente, decisa ad avere un posto nel mondo, nella società, vogliosa tanto quanto l’uomo. Snaporaz è spaventato, sconvolto da quel cambio radicale che fa riferimento ad un bagaglio culturale errato e arretrato in cui il maschio si è crogiolato. Fin da subito il protagonista comprende la straordinarietà della donna del treno le cui mani, le cui labbra si appoggiano su di lui come farebbe un uomo qualunque.
Snaporaz e Fellini, specchio l’uno dell’altro
Alla sua uscita, nel 1980, il film di Fellini è stato criticato, soprattutto per la descrizione deformata delle femministe – le donne se la prendono con Snaporaz in quanto uomo, se la prendono per tutto ciò che hanno subito, lo aggrediscono usando parole che sembrano stanchi slogan. La città delle donne però è non solo un racconto sulla donna ma anche su come essa si rapporti all’uomo e su quanto il maschilismo sia insito nell’uomo che Fellini rappresenta.
Lo si sa bene: la guerra ha modificato le dinamiche di coppia, ha dato forza alla donna, fino a poco prima relegata ad angelo del focolare, che si è presa il posto che avrebbe dovuto avere. Sullo schermo appare un uomo maturo, cresciuto durante il fascismo, rappresentato da Mastroianni che emblematizza Fellini, che mostra un’identità ben precisa: infantile, mammone, egoista; Snaporaz ha lasciato sua moglie sul treno e quando la ritrova tenta di trattenerla sopportando poco la sua nuova libertà, le sue decisioni ma poi si crogiola nelle sue decisioni – parafrasando le dice: “non ci siamo separati?”.
L‘Uomo è spaventato da questa donna forte, sicura, desiderante tanto quanto lui – è sempre stato abituato alla caccia, quando viene cacciato lui cambia, non capisce -, libera tanto quanto lui. La villa-bunker di Katzone, doppio priapesco, ridicolo e mostruoso del protagonista che è a sua volta doppio di Fellini – un amante estremo delle donne -, rappresenta l’incapacità del maschio di capire che le cose si sono modificate, vivendo ancora sulle macerie del passato, di cliché su cui la società si è fondata. L’archivio-labirinto dove Katzone conserva gli audio e le immagini delle sue conquiste, un malinconico e ingenuo monumento dell’uomo che è stato, luogo che ha le forme del cimitero, un mausoleo della Donna che ha incontrato.
La città delle donne è visionario e onirico come è onirico e al tempo stesso carnale il pensiero che Fellini fa intorno alle donne; è un lungo sogno a tratti addirittura un incubo in cui viene evocato lo spaesamento di una generazione costretta a misurarsi col fallimento (della nazione, del proprio genere, di un immaginario/schema culturale che si è costruito da anni e anni). Si fa album di idee, sentimenti, emozioni, ma è anche a tratti grottesco come anche farsa lunare, ma ciò che si evince è che Fellini racconti le difficoltà della relazione, quella profonda, totale, tra uomo e donne.
Una fiaba composta da molti toni
Fellini scrive una fiaba che gioca con il tono, a volte sogno, altre scherzo e ancora ricordo. Riscopre, porta a galla, rilegge e si prende gioco delle cose, malinconicamente del latin lover che è stato (desideroso di accoccolarsi sul seno di una donna fin da piccolo, anelante al corpo di un’infermiera che lo stava curando e così via), si autocita (le donne giunoniche, lo struggimento del suo cinema) e compone un’altra delle sue fantasmagorie che a tratti può lasciare perplessi per quei salti pindarici che ci portano da un luogo all’altro, da un posto all’altro, da un piano all’altro.
Il protagonista appare come una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie, popolato dalla sessualità che in qualche modo ripercorre gli episodi della piccola eroina di Carroll: l’arrivo nel mondo, cadendo nella tana del Bianconiglio, la conoscenza delle creature che abitano quel luogo, il desiderio di fuga, il tribunale che mette sotto accusa il protagonista. Ciò che appare evidente è che Snaporaz (e quindi Fellini) sia impotente nei confronti della nuova donna. Fellini pone al centro la Donna, mitica, superiore, inviolabile, e l’uomo ne è vittima, pur non rendendosene conto – perché gli è stato insegnato che la donna è preda -: pensiamo alle enormi terga femminili che sembrano un’esagerata rappresentazione di ciò che Lei è stata per molto tempo, un oggetto del desiderio nelle mani del maschio.