La città proibita: recensione del film di Gabriele Mainetti

La città proibita è la terza attesa regia di Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot), un film d'arti marziali ambientato a Roma in bilico tra azione, dramma, umorismo e apertura al cambiamento.

Gabriele Mainetti è uno dei nostri autori più importanti e l’ironia è che, fino a non molto tempo fa, in pochi avrebbero osato parlarne in questi termini. In fondo – si sarebbe detto – nella carnalità della messa in scena, nei doverosi rimandi cinefili, il suo resta sempre cinema di genere. E il genere, nella gerarchia del prestigio, sta in seconda fila. Fortunatamente si può essere autori in molti modi, dentro e fuori il genere, e il genere negli ultimi anni ha preso il sopravvento, nell’immaginario collettivo. Gabriele Mainetti ha le idee chiare. Sa cosa mettere davanti la macchina da presa e come; capita raramente, ma è questo che fa l’autore: lasciarsi possedere da una visione, creare una forma (estetica, narrativa) che sappia contenerla e, dopo, popolarla di idee.

Il suo nuovo film, che si chiama La città proibita e arriva in sala per PiperFilm il 13 marzo 2025 in 400 copie dopo un’anteprima l’8 marzo (qui le copie sono 200), è un film d’arti marziali girato a Roma. Non capita spessissimo, viene da dire. Dopo l’eroismo all’amatriciana di Lo chiamavano Jeeg Robot e il fantasy-action Freaks Out, Gabriele Mainetti va a pescare un’influenza di genere lontanissima dal nostro orizzonte culturale, la fa combaciare con la romanità del contesto, capendo sempre quando è il caso di armonizzare i due universi e quando è il caso di sottolinearne le irrimediabili (?) distanze. Kung-fu e Piazza Vittorio, cosa c’è di meglio? Cast: Enrico Borello, Yaxi Liu, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Chunyu Shanshan e Luca Zingaretti.

La città proibita: Roma, amore e arti marziali

La Città Proibita; cinematographe.it
foto © Andrea Pirrello.

Piazza Vittorio, anche se per estensione bisognerebbe parlare – è qui che si snoda gran parte dell’azione – del Rione Esquilino, a due passi dal Colosseo e dalla stazione Termini, uno dei più turbolenti, frizzanti e multietnici quartieri della Capitale. Rispetto all’esordio Jeeg Robot, che metteva insieme periferia, Tevere e Curva Sud, rispetto all’affresco in costume Freaks Out – lì il focus non era su una certa parte della città ma su un periodo, quello dell’occupazione nazifascista – con La città proibita Gabriele Mainetti realizza il suo film più conciso e equilibrato. C’è sempre, a monte, il richiamo a un genere estraneo al nostro orizzonte – stavolta è la Cina, il Wǔxiá, il cinema d’arti marziali – e c’è sempre, a bilanciare l’esterofilia, il richiamo dolceamaro a una romanità mai caricaturale (come troppo spesso, sfortunatamente, capita di incontrare). C’è anche la volontà di fare un cinema ibrido, onnivoro, che divori stili, tematiche e atmosfere non sempre coincidenti, accompagnato a un controllo della messa in scena, a una consapevolezza delle potenzialità della storia, a un rigore, che nei primi due film si esprimeva in maniera più squilibrata.

La città proibita è il primo, dei tre film diretti da Gabriele Mainetti, non scritto dal fido Nicola Guaglianone, sostituito dalla coppia d’oro Stefano Bises e Davide Serino (M – Il figlio del secolo) ed è chiaro che questo spiega, in parte, le novità. La complessità sfuggente del film è attutita dalla coerenza dei suoi punti fermi, che sono tre e si scompongono nelle parole: Roma, amore e arti marziali. Mei (Yaxi Liu) arriva dalla Cina a Roma in cerca della sorella. È una guerriera formidabile, non sa una parola d’italiano, ha difficoltà a orientarsi e il cuore colmo di rabbia: insegue la vendetta. Cerca risposte alla “Città Proibita”, che non è solo il titolo del film ma anche il nome del ristorante cinese, all’Esquilino, gestito dal temibile signor Wang (Chunyu Shanshan), che forse sa o forse non sa cos’è successo alla sorella.

Accanto al locale di Wang c’è un ristorantino come quelli di una volta, che si chiama “Da Alfredo” anche se Alfredo (Luca Zingaretti) non c’è da un pezzo, è scappato, lasciando a gestirlo la moglie Lorena (Sabrina Ferilli), il figlio chef Marcello (Enrico Borello) e l’amico mafiosetto di quartiere Annibale (Marco Giallini). Marcello ha smarrito un padre, Mei una sorella. Si trovano per caso e il primo incontro è parecchio doloroso – per lui – ma dopo non si lasciano più. Hanno caratteri diversi, vengono da mondi diversi e rispondono al dolore della vita in maniera diversa. Superano gli ostacoli abbandonandosi all’amore, accettando il cambiamento, aprendosi alla novità. Un po’ come Roma, che sembra sempre uguale a se stessa ma invece cambia. È la città, l’architrave su cui Gabriele Mainetti sviluppa il suo denso e bellissimo film.

L’equilibrio tra novità e tradizione è il segreto del film

La Città Proibita; cinematographe.it
foto © Andrea Pirrello.

Gabriele Mainetti (l’autore) fa cinema di genere meglio di chiunque altro, in Italia, perché lo conosce bene, lo ama molto, ma non si lascia incantare dal sentimento; sa quando fermarsi. La città proibita è un film d’arti marziali dall’ammirevole purezza narrativa e limpido nella costruzione dell’azione; combattimenti così credibili, e intensi, e divertenti, da noi sono una novità inaudita. Il punto è che, per quanta apertura e disponibilità al cambiamento il film possa mettere in mostra, questo cinema e quest’azione non potranno mai appartenerci del tutto. Serve a questo la romanità, il richiamo a codici stilistici e a un umorismo che affondano le radici nella stagione migliore della commedia (all’italiana): a bilanciare il nuovo con un sapore di autenticità autoironica che ci appartiene e ci tranquillizza. L’amore a suo modo politico – verità restituita in maniera soffusa, appena accennata – di Mei e Marcello è una fantasia che può diventare realtà, nonostante gli ostacoli. È l’incontro tra due mondi, due culture, che forse hanno poco da spartire ma condividono lo stesso Esquilino e non possono ignorarsi.

Non è possibile essere romani come una volta; il “dinosauro” Marco Giallini ci prova – un magnifico villain che non è possibile non amare, e l’attore romano lo riempie di tenerezza e brutale cinismo – e sappiamo che è destinato a fallire. Né si potrebbe, anche volendolo, diventare tutti cinesi; Mei e Marcello sono i primi a capirlo. Loro sono più avanti degli altri perché scoprono il fianco, si lasciano cambiare un po’ dall’altro/a ma non si rinnegano, mai. Enrico Borello è fragile, autoironico ma pieno di pathos e dignità. Yaxi Liu è una superba combattente – e apprezzatissima stunt, in patria e non solo – e una lama affilata di glacialità e sete di vendetta che a poco a poco si scopre. Due stili di recitazione così non possono combaciare e non devono farlo, e infatti Gabriele Mainetti non li forza mai in questa direzione: li amalgama, senza scordarsi delle differenze.

La città proibita è un film sull’amore, sulla bellezza (e la fatica, e i rischi) del cambiamento, ma forse e soprattutto è un film su Roma, sull’incredibile elasticità di una città, madre e a volte matrigna, che accoglie, assorbe, cambia anche se siamo di un altro parere, stupisce con la sua bellezza e stordisce col traffico assassino; che si fa cambiare, senza smarrire se stessa. Roma è l’inaspettato e perfetto palcoscenico per un film d’arti marziali (in realtà Bruce Lee se n’era già accorto), ma in fondo è sempre Roma. A livello di visione d’autore, di messa in scena, di rapporto con la città, la forza della storia è la sua incrollabile coerenza: La città proibita è in equilibrio tra la voglia di proporre un cinema italiano diverso e la fedeltà alle radici. Sta al pubblico rispondere, ora.

La città proibita: valutazione e conclusione

La città proibita è un film d’arti marziali incredibilmente divertente, un action sentimentale, un racconto in bilico tra tradizione e riscrittura delle regole del gioco. Gabriele Mainetti riesce a trovare la quadra tra le esigenze dell’azione pura – coreograficamente impeccabile, leggibile dallo spettatore e molto intensa – e il gusto per lo studio di carattere. L’inno alla contaminazione, l’invito ad accettare il cambiamento, non sono mai fiaccati da ingenuità e idealismo: l’amore di Mei e Marcello è complicato, ma bello. Oltre i protagonisti, da ricordare l’ambiguità comico-drammatica di un bravissimo Marco Giallini e l’energia, sentimentale e molto divertente, di Sabrina Ferilli. La riposta del pubblico ci aiuterà a capire se c’è davvero spazio per un cinema italiano più flessibile e sfaccettato.