Roma FF17 – La cura: recensione del film con Alessandro Preziosi
Un'opera che richiede attenzione, immedesimazione, pazienza.
Inizia precipitosamente, strattonando il nostro sguardo su una Napoli stranamente deserta. La cura di Francesco Patierno cambia i connotati a La peste di Albert Camus, ne assorbe lo scheletro letterario per importarlo in un tempo nuovo, colonizzando i personaggi dell’opera – pubblicata nel 1947 e ambientata ad Orano, che all’epoca faceva parte dell’Algeria francese – e iniettandogli il pathos della contemporaneità, lo stesso che chiunque ha potuto provare sulla propria pelle durante i giorni del lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19.
È in questo passato recentissimo che il film ancora la sua storia, alternando finzione a realtà ed elaborando una serie di collegamenti indefiniti tra passato prossimo e passato remoto. La sceneggiatura scritta dallo stesso Patierno insieme a Francesco Di Leva e Andrej Longo sembra negarci punti di riferimento definiti; alla fin fine il fulcro di tutto è il lavoro di una troupe cinematografica che si trova a girare un film tratto dalla già citata opera di Camus durante i giorni del lockdown, in una confusione sconfortante che ci coglie quasi impreparati davanti allo schermo. Le immagini che scorrono con la fretta maldestra di sparire un istante dopo, consapevoli di non dover essere perfette, ci caricano di un disagio che potrebbe ben presto destabilizzare la nostra attenzione. Serve resistere alla confusione e alla domanda iniziale per arrivare al cuore de La cura, per indagare nell’animo di una storia che pian piano mette allo scoperto l’umanità, la paura della fine, le parole dell’uomo su Dio, le lettere scritte dall’uomo per l’uomo stesso.
La cura: il passato che si intreccia al presente, la realtà che sconfina nella finzione
Anche nel film di Patierno, come in La peste di Camus, il protagonista è il medico Bernard (interpretato nella pellicola da Francesco Di Leva), che si batte al fine di alleviare le pene di chi soffre e per evitare la diffusione del virus. C’è, in lui, un’umanità appresa dalla miseria, un senso di colpa lasciato a marcire in fondo al cuore (la lontananza dalla moglie malata) e un’amicizia che accenna a nascere con Tarrou (Alessandro Preziosi), che con lui condivide la volontà di mettersi al servizio del prossimo.
Ma in questo scenario c’è anche chi vorrebbe fuggire via, come il Rambert di Francesco Mandelli, che si trova nella città partenopea per lavoro ma freme per ritornare dalla donna che ama, salvo poi mollare il suo ego per mettersi anche lui al servizio della comunità.
Per mezzo dei personaggi Patierno delinea i modi d’essere e di pensare comuni, mettendo in luce la smisurata fede nella scienza, una certa idea di divinità che è specchio talvolta della supremazia umana (vedasi l’atteggiamento di Bernard), talaltra del bisogno di credere in un Dio giusto e misericordioso. Acquisiscono un’importanza teatrale e fondamentale gli spaccati scenici in cui Padre Paneloux (Peppe Lanzetta) predica in una chiesa vuota o grida il dolore per la morte di un’innocente dinnanzi a una città senza vita: le sue parole sono parentesi di riflessione universale.
E la riflessione, d’altro canto, è la forza della pellicola. La cura ci catapulta in uno scenario noto, non riadatta nessuna opera, in fondo, semplicemente prende in prestito un libro di successo e un simbolo quale la città di Napoli – la pandemia di colera degli anni ’70 è ancora viva nella memoria – per ricordarci la paura di quei giorni, ma soprattutto l’umanità che siamo stati in grado di tirare fuori. Lo fa servendosi di un cast in grado di attrarre il pubblico; lo fa lasciando intersecare i due piani narrativi e lo fa, anche, provocando nello spettatore un senso di instabilità.
La macchina da presa è rapida, alle volte indugia un po’ troppo su certe scene, in altre occasioni invece ce le mostra tagliate, con provvisorietà, la stessa che affligge la vita umana.
Si ha l’impressione che La cura impieghi del tempo a farci inabissare nel tunnel in cui si ritrovano i protagonisti. Quando raggiunge l’apice, è come se avesse fretta di bruciare e scomparire, come se volesse lasciarci con quel retrogusto amaro, bloccarci in una situazione di stasi, eppure lasciare viva l’umanità, quella da tutelare a tutti i costi.
Al netto di tutto La cura si rivela un film di difficile gestione, una pellicola che richiede attenzione, immedesimazione, pazienza. Le parole e i gesti posti a conclusione sono una luce accesa nel buio dei nostri giorni, una parentesi di poesia nel marasma pandemico.
Presentato in Concorso alla Festa del Cinema di Roma 2022, il film è una produzione Run Film in associazione con Fondazione In Between Art Film, prodotto da Alessandro e Andrea Cannavale
con Beatrice Bulgari.