La dittatura perfetta: recensione del film Netflix
La dittatura perfetta è un racconto ironico e grottesco, un dramma brutale e un affresco del Messico.
La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia. Una Prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù.
Queste parole compaiono sulla quarta di copertina di Brave New World dello scrittore britannico Aldous Leonard Huxley. L’autore aveva immaginato che in un futuro imprecisato ci sarebbe stato una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone sarebbero state private delle loro libertà, ma ne sarebbero state felici. Luis Estrada immagina proprio un mondo di questo tipo in La dittatura perfetta, il film Netflix che racconta il Messico di oggi, piegato e piagato da corruzioni, ambizioni incontrollate e incontrollabili, amicizie e inimicizie, bramosie e segreti nascosti. Cosa succederebbe se un politico corrotto, mediocre e senza troppi talenti, venisse aiutato da una nota stazione televisiva per poter raggiungere i propri scopi?
La dittatura perfetta: il racconto di una negoziazione e di uno Stato in cui tutto è concesso
Fin da subito, in La dittatura perfetta, è chiaro quanto e come la comunicazione sia un potente strumento nella nostra vita. Quando un giovane, affascinante presidente del Messico, nel suo inglese incerto, di fronte all’ambasciatore americano, colleziona un errore dopo l’altro che inevitabilmente raggiungono ogni angolo del mondo. Gli scivoloni del presidente sono arginati, cancellati per quanto possibile, questo perché sono stati proprio i media, con il “sudore della fronte”, a fare di lui ciò che è: il Presidente. Subordinazioni, relazioni tra politici e narcotrafficanti, menzogne, manipolazioni sono ciò che costruisce il film, che lo spettatore vede ma che il pubblico del notiziario non sa, o finge di non sapere.
In questo clima di videocracy Carmelo Vargas (Damián Alcázar) è uno dei nomi che compaiono nel telegiornale della televisione messicana per la sua meschina corruttela: viene mandato in onda un video in cui il governatore di uno stato immaginario del Messico accetta una valigia piena di contanti. Il politico non lo può sopportare anche perché ha altre ambizioni, diventare presidente, cosa impossibile dopo questo scandalo. La dittatura perfetta racconta di una negoziazione, quella tra l’emittente e Vargas pagata profumatamente, di uno Stato in cui tutto è concesso perché il vil danaro è metro e misura di tutte le cose.
La dittatura perfetta: lo spettatore viene gettato in un inferno non inferno
La televisione messicana non si tira indietro; c’è “un’etica” anche nella completa assenza di etica. La rete chiede al produttore del notiziario, Carlos Rojo (Alfonso Herrera), e al reporter di punta, Ricardo Díaz (Osvaldo Benavides), di “tappare i buchi”, nascondere tutte le crepe nella/della politica (di Vargas) e nel/del politico (Vargas), e quindi di, se necessario, costruire a tavolino situazioni, notizie. Così l’uomo non è più corrotto e corruttore, non è più donnaiolo, è un uomo che pensa al bene dello stato e della “sua gente”.
Cosa è disposto a fare Vargas per vincere? Tutto ma non è il solo. Non c’è pietà e neppure dignità per questi personaggi che freddano il nemico, pagano per poter continuare a delinquere, umiliano gli altri per primeggiare. Il film di Luis Estrada è una commedia tragica e violenta che, in un primo momento, allontana proprio per la sua aderenza ad una società che vive nel marcio e di marcio, ad una società che fa fuori l’oppositore, che finge di essere ciò che non è, imprigionando lo spettatore, ascoltatore, lettore, uomo sociale, in una prigione dorata a cui lui stesso non crede.
Si decide per distogliere l’opinione pubblica dalle magagne di Vargas di montare un caso intorno al rapimento di due gemelline; è inquietante e quantomai disumano il progetto del produttore e del reporter che non riescono a fare un passo indietro mai, neppure quando vedono i genitori delle bimbe piangere e disperarsi, non hanno remore nel distruggere le loro vite portando a galla i problemi della coppia, usarli biecamente per i loro comodi. Vargas riesce a ricostruirsi una verginità sulle macerie del “suo” Messico, riesce a ripulire la sua immagine, da sempre sporcata dalla sua indole da faccendiere, da “trafficante”, da amorale, mentre il “popolo” è troppo impegnato ad ipotizzare chi sia il rapitore, a sperare che le gemelle tornino presto a casa, a donare “soldi” per coprire l’ingente riscatto.
La dittatura perfetta: lo spettatore viene gettato in un inferno non inferno
Mentre l’ascesa politica di Vargas è inarrestabile c’è la pura genuinità del suo principale avversario politico (Joaquín Cosío), illuso e convinto che l’emittente sia lì per far emergere l’operato criminoso del governatore. Continua a dare notizie al produttore, chiedere aiuto e gesti effettivi e, incredibilmente, nessuna promessa viene mantenuta, anzi, ogni presenza in tv di Vargas è un punto in più per lui e un punto in meno per quello che sembra essere l’antagonista. La dittatura perfetta è anche un film che gioca con la realtà e la finzione, tra ciò che è e ciò che appare; è una sottile linea di demarcazione quella che divide un campo e l’altro, argomenti fondamentali nella politica. È una vera e propria truffa mediatica in cui chi ha le armi fa di tutto per arrivare dove vuole, spezzando le gambe di chi non è utile, di chi non è integrato, di chi non è ingranaggio nel percorso di Vargas.
Così mentre Vargas diventa salvatore di bambini ostentando un dispiegamento di risorse nelle ricerche, il suo antagonista diventa un mostro; La dittatura perfetta getta chi guarda in un inferno non inferno, in un brutale circo che sembra un misero giardino dell’Eden, in una casa degli orrori di cui pochi o tutti sono consapevoli ma è più facile, più sopportabile pensare che ciò che viene mostrato sia la realtà. È più digeribile credere nelle menzogne di Vargas invece di accettare che lui sia corrotto, trafficante, criminale e che il telegiornale sia uno strumento, o meglio vero e proprio demiurgo del successo e della carriera del politico di turno.
La dittatura perfetta è un racconto ironico e grottesco, un dramma talmente brutale da diventate una funerea e angosciosa barzelletta talmente scontata e feroce da ferire come una pugnalata al cuore. Il film di Estrada fa soffrire l’uomo moderno perché mostra dinamiche che, in un modo o nell’altro, conosce e riconosce ma che molto spesso finge di ignorare.