La fiera della vanità: recensione del film con Reese Witherspoon
Torna in tv l’adattamento di Mira Nair dell’omonimo romanzo di William Makepeace Thackeray
Quanto lontano è lecito spingersi per ottenere ciò che si desidera? È la domanda che si è posto William Makepeace Thackeray nel suo romanzo del 1848 La fiera della vanità, e la stessa che si pone la regista indianaMira Nair nella trasposizione cinematografica del libro, uscita in sala nel 2004. Un film ben realizzato e appassionante, con un cast interessante guidato dalla talentuosa Reese Witherspoon nel ruolo della protagonista. Soprattutto se amate le storie in costume, La fiera della vanità è un accattivante insieme di scene ricche, abiti sfarzosi e dialoghi pungenti, oltre che essere uno spaccato affascinante dell’alta società della Londra dell’impero e della democrazia. Le vicende dell’imprevedibile Becky e della sua scalata al successo – ma anche della sua caduta e della sua rinascita – non possono che entusiasmare lo spettatore e portarsi a chiedere, proprio come fanno William Makepeace Thackeray e Mira Nair, se possiamo dirci veramente felici una volta ottenuto tutto quello che volevamo.
La fiera delle vanità: Tutto è concesso nella scalata al successo sociale
Becky Sharp (Reese Witherspoon) è una ragazza di umili origini che, nella Gran Bretagna di inizio Ottocento, è fermamente decisa a risalire la scala sociale e ad alzare il suo status. Dopo aver frequentato il collegio insieme alla sua amica benestante Amelia Sedley (Romola Garai), la ragazza inizia a cercare a tutti i costi il raggiungimento di una vita agiata tramite un matrimonio vantaggioso. Prima cerca di sedurre il fratello della sua amica, Joseph, ma fallisce anche per l’intromissione di George Osborne (Jonathan Rhys-Meyers), il fidanzato di Amelia, che sconsiglia al futuro cognato di impegnarsi con una donna bella ma povera. In attesa di raggiungere il suo scopo, Becky accetta un lavoro come istitutrice dal nobile decaduto Sir Pitt, e qui conosce Rawdon Crawley (James Purefoy), un giovane ufficiale con cui si sposa in segreto, sapendo della grossa eredità che è destinato a ricevere da un’anziana zia. Ma anche questa volta le cose non vanno come sperato, perché Rawdon viene cancellato dal testamento, e Becky dovrà destreggiarsi tra il suo matrimonio ora inutile ai suoi scopi e la corte spietata di George, che è caduto in disgrazia dopo che la famiglia di Amelia è andata in rovina. In un crescendo di tensione, tradimenti, colpi di scena e insoddisfazione, i personaggi fanno di tutto fino alla fine per essere i vincitori della fiera della vanità, quella corsa tanto inebriante quanto pericolosa dove tutto è lecito, pur di avere successo.
Un film stilisticamente perfetto, ma…
Il punto di forza de La fiera della vanità di Mira Nair è indubbiamente l’aspetto visivo: stilisticamente, infatti, il film ha un impatto che colpisce e cattura, soprattutto se si è appassionati di atmosfere ottocentesche. A rendere tutto ancora più sontuoso – quasi a sfiorare il kitsch in alcuni casi – è lo stile tipicamente indiano della Nair, acclamata come un genio in madrepatria dopo il successo di Monsoon Wedding. La regista, infatti, mette decisamente molto dello stile made in Bollywood, riscontrabile in uno sfarzo senza limiti, in colori sgargianti, costumi ricchi e meticolosamente dettagliati, grandiose panoramiche e una colonna sonora sontuosa quanto le location del film. Tutti elementi che, combinati insieme, sono così eccessivi e ridondanti da trasmettere perfettamente quella sfrenata sfarzosità che la scaltra Becky cerca di raggiungere con ogni mezzo. Altro punto di forza del film sono indubbiamente i dialoghi, merito del sapiente lavoro di sceneggiatura compiuto da J. Fellowes, già apprezzato per il suo eccellente lavoro in Gosford Park: i dialoghi sono pungenti e interessanti, e funzionano soprattutto per la protagonista, di cui emerge tutto il suo essere manipolatrice, calcolatrice e decisamente priva di qualsiasi tipo di ideale. Proprio questa ricchezza estrema di elementi, in alcuni passaggi, rende il film un po’ eccessivo e troppo carico, quasi auto celebrativo. E questo a discapito di un approfondimento psicologico dei personaggi che, spesso, viene sacrificato in favore della ricerca a tutti i costi dello sfarzo visivo: insomma, il peggior difetto de La fiera della Vanità è proprio la vanità stessa. In difesa degli autori e della regista, però, c’è anche da dire che adattare più di novecento pagine di romanzo, inoltre costellate di decine di personaggi, in poco più due ore di film per il cinema non era un’operazione facile. Nonostante questo, però, il film rimane un lavoro piacevole e coinvolgente, che compie una forte critica alla società condannando un ruolo, quello dell’arrampicatrice sociale, che è presente ancora oggi nel nostro mondo, seppur con modalità diverse.
La trasposizione cinematografica di Mira Nair del celebre romanzo La fiera della vanità ha molti pregi, soprattutto stilistici, e qualche difetto nell’approfondimento psicologico dei personaggi e nell’eccessiva vanità stilistica. Nonostante questo, rimane un’opera piacevole che non annoia, ed è strutturata abbastanza bene da incuriosire lo spettatore nel sapere cosa succederà a Becky e agli altri personaggi. Ad aiutare, un cast di ottimo livello, ricco di cammei inaspettati – tra cui Gabriel Byrne, Jim Broadbent e Bob Hoskins – e di protagonisti che regalano interpretazioni pungenti, in particolare Reese Witherspoon che riesce ad essere deliziosamente antipatica. Un buon film d’intrattenimento, insomma, che piacerà soprattutto agli amanti del genere ottocentesco.
La fiera delle vanità è presente anche nel catalogo della piattaforma streaming Amazon Prime.