RomaFF14 – La giostra dei giganti: recensione del documentario di Jacopo Rondinelli
Il film di pre-apertura della 14° Festa del Cinema di Roma è la storia di un'incantevole e folkloristica follia chiamata carnevale di Viareggio: allegorico, iconico e unico nel panorama italiano e internazionale.
Inviato in ritardo al Festival del Cinema di Roma, come candidatura al concorso ufficiale, La giostra dei giganti ha a tal punto conquistato i selezionatori da guadagnarsi comunque non solo il fuori concorso ma anche la prestigiosa proiezione di pre-apertura della manifestazione. Ne comprendiamo appieno le ragioni: il lavoro di Jacopo Rondinelli è un sogno ad occhi aperti, un viaggio intimo che scopre il dietro le quinte di un microcosmo a cui non siamo abituati a pensare, che diamo per scontato come spesso accade per le opere d’arte, di cui ammiriamo solo il risultato finale senza porci troppe domande.
Leggi anche Ride: recensione del film di Jacopo Rondinelli
Rondinelli – artista multimediale già collaboratore di Gabriele Salvatores e Lina Wertmüller, che nel 2018 ha esordito nel lungometraggio con Ride – racconta di aver scoperto Viareggio e il suo carnevale per caso, nel 2014, grazie ad un amico comune, e di esserne rimasto subito affascinato. La potenza di La giostra dei giganti sta anche in questo stupore genuino, dunque, che ci pone un po’ sullo stesso piano del narratore che va a caccia di storie, personaggi e aneddoti riguardanti una festa unica e folle, al centro della cultura italiana – un po’ come il palio di Siena, volessimo trovare un paragone – eppure spesso a rischio cancellazione.
Viareggio è il carnevale
La primissima inquadratura suona già come una dichiarazione d’intenti: su un muro della città campeggia la scritta “Viareggio è il carnevale”. Un’equazione importante, assoluta, che spiega come gli abitanti si identifichino in toto con un evento nato nel 1873 e diventato istantaneamente simbolico. Rondinelli raggiunge la località toscana in una annata cruciale, il 2015: il carnevale potrebbe dover chiudere, mancano i fondi comunali e regionali nonostante il ritorno economico sia ampiamente superiore ai costi. C’è tensione, quindi, mescolata tuttavia alla consueta gioia per la creazione della sfilata: tra i vari gruppi di carristi c’è sfottò, competizione, voglia di primeggiare, e desiderio di proiettarsi verso il futuro senza però dimenticare le radici e le tradizioni.
Mentre si preparano i concept, gli schizzi e i bozzetti dell’edizione (tra i quali il riscaldamento globale e Bella Ciao, la “grande madre” Merkel e gli abusi sui minori), si raccontano i maestri carristi che hanno nobilitato nel corso dei decenni la kermesse. Su tutti Arnaldo Galli, forse il più grande di sempre, artista genio e sregolatezza chiamato anche da Fellini; ma anche il suo eterno rivale Silvano Avanzini, più accademico e inquadrato, precedente illustre e “ingombrante” per il figlio che sta cercando di raccoglierne l’eredità. Mentre oggi il più amato, quasi una rockstar, è Massimo Breschi, che spiega come le fondamenta del carnevale viareggino poggino sulla satira e sull’allegoria che attira le ire del potere, lo “svelamento della maschera” dissacrante e irriverente.
La giostra dei giganti: “Il carnevale muore! Viva il carnevale!”
È lo stesso titolo della pellicola, La giostra dei giganti, a contenere tra l’altro buona parte del messaggio voluto dal regista. Il riferimento è al gigantismo quasi spaventoso delle costruzioni – un multiverso di creatività e arte effimera, tra cartapesta e artificio meccanico – e al mondo fiabesco e surreale che magicamente e dal nulla prende vita. Le macchine leonardesche dalle incredibili dimensioni racchiudono poesia e romanticismo, ritualità e invenzione, ma soprattutto danno la dimensione di un’idea che si sviluppa, si fa emozione e diventa spettacolo. Come il carnevale di Rio, si potrebbe dire, con la differenza non trascurabile dell’artigianalità e dello spirito di denuncia che è il vero e proprio marchio della festa.
Rondinelli, in poco più di un’ora, riesce a restituire in modo limpido e sincero – senza lungaggini, senza retorica – il senso di appartenenza di una manciata di personaggi straordinari che vivono ai margini della società, che si tatuano (anche letteralmente) il carnevale sulla pelle vivendolo come ciò che maggiormente li identifica e li realizza. Per questo il giorno dell’inaugurazione diventa il giorno della verità e la madre di tutte le guerre, una sfida in cui vittoria e sconfitta modificano il corso dei mesi successivi, per riprendersi dallo smacco di un ultimo posto o all’opposto confermare il successo ottenuto. Se per oltre cento anni il consueto proclama finale “Il carnevale muore! Viva il carnevale!” fungeva solo da tradizionale passaggio di consegne e buon auspicio per l’edizione successiva, nel 2015 il rischio concreto della soppressione ha reso quell’espressione quasi un ammonimento, un oscuro presagio. Ma alle favole ogni tanto – incredibile ma vero – può essere ancora concesso il sorprendente beneficio del lieto fine.