La nostra terra: recensione del film di Hugh e DK Welchman
Dopo Loving Vincent, il secondo lungometraggio di Hugh e DK Welchman, direttamente tratto dal romanzo Premio Nobel The Peasants, al cinema a partire dal 2 dicembre 2024.
La tela che dipinge, che assorbe, che impressiona, che illumina, una tecnica avanguardistica che guarda al passato, il dipinto che si trasforma in girato, l’affresco di una civiltà contadina, remota, involuta, microcosmica ed emblematica rappresentazione di una realtà che si erge su regole patriarcali e classiste; La nostra terra è il secondo lungometraggio diretto da DK Welchman e Hugh Welchman, la coppia che nel 2018 riuscì ad ottenere la nomination agli Oscar per Loving Vincent, prima pellicola della storia realizzata interamente su tela, con quasi 670 mila fotogrammi dipinti da 125 artisti differenti. Con il suo secondo progetto, la coppia ha dato seguito a questa tecnica pionieristica per raccontare una storia struggente, che attinge dalla storia e, soprattutto, dalla letteratura. Il film esce infatti nelle sale italiane nel 2024, a un secolo esatto di distanza dall’attribuzione del Nobel allo scrittore polacco Władysław Reymont per il suo Chłopi (The peasants, “I Contatini”), romanzo scritto in quattro parti tra il 1904 e il 1909, con ognuna di esse dedicata ad una differente stagione. Prodotto da Digitalkraft doo, Art. Shot, Breakthru Films, e Chlopi Sp. Z o.o, e distribuito in Italia da Wanted Pictures, il film vede la partecipazione di attori polacchi che hanno fatto da campione, girando prima le scene e vedendosi poi, in un secondo momento, ricostruiti attraverso i dipinti; tra questi figurano: Kamila Urzedowska, Robert Gulaczyk, Miroslaw Baka, Sonia Mietielica ed Ewa Kasprzyk.
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La nostra terra: patriarcato su tela
Nella Polonia rurale di fine ottocento, il piccolo villaggio di Lipce vive del lavoro dei suoi contadini e di una spartizione sanguigna dei possedimenti; la giovane e bellissima Jagna (Kamila Urzedowska), ancora senza marito e sollecitata dalle altre donne del luogo ad accasarsi, sembra riluttante a seguire i patriarcali dettami della società e cerca così di opporsi ad un destino però, in parte, già scritto. Le continue voci sul suo conto fanno seguito alle innumerevoli attenzioni degli uomini del posto ed in particolare a quelle del vecchio vedovo Maciej (Mirosław Baka), primo e più ricco contadino del villaggio che, grazie all’irrinunciabile offerta fatta alla madre della ragazza, costringe Janga ad accettare il matrimonio mentre lei, di nascosto, instaura una passionale relazione con il più grande dei figli di lui, Antek (Robert Gulaczyk).
Tra le danze e i fiumi d’alcol, pettegolezzi, insinuazioni e invidie iniziano a serpeggiare per il paese; tutti, soprattutto in famiglia, lottano per conquistare un pezzo di terra in più, pronti a giudicare il prossimo per ogni azione, per ogni frase, per ogni sguardo, per ogni atteggiamento o presunto tale. Il passare delle stagioni e l’inasprirsi del clima trascinano con essi importanti sconvolgimenti, un acuirsi di violenza e di morte e un accanimento sempre più massivo e brutale nei confronti della protagonista, assorta all’interno di un vortice che lentamente la divora mostrandole tutta la brutalità dei suoi concittadini, sempre più diffusamente determinati a schierarsi a suo sfavore.
Capolavoro della tecnica e non solo
Il cinema è fotografia in movimento, il cinema dei Welchman è pittura che si muove, che prende vita, che nasce da riprese di riferimento ma cresce nella combinazione di esse con opere ad olio di diversi artisti e con avanguardistiche tecniche d’animazione, in grado di rendere il film una vera e propria opera d’arte continua, protratta nel tempo, circa due ore di pennellate abbaglianti, fattesi preda di uno schermo che danza assieme a musiche popolari suonate di continuo.
Il tutto non è fine a sé stesso, questo accuratissimo lavoro di sovrapposizioni e trasformismo fa da dinamico sfondo ad un racconto che coinvolge, che emoziona, che provoca fastidio tentando di esorcizzare il ricordo di una società marcia, imbruttita dall’invidia e dalla fame, dalla voglia di emergere sui vicini e sui familiari, di ottenere, di conquistare. A scandire ci sono le quattro stagioni, che accompagnano la vita del villaggio di Lipce e la rovinosa e continua caduta dalla morale e dei valori dei suoi cittadini.
La solitudine e i dolori dell’emancipazione
La brama di conquista, l’ambizione, la fame, la reputazione, è questo il punto di partenza, è questo quello che muove il volere della microsocietà polacca, in particolare quello degli uomini, che detengo il potere e ambiscono a ottenere terre tanto quanto ambiscono alle donne; è il loro brutale e violento desiderio a tirare le fila di quel mondo e Jagna, al centro di tutto, ne assorbe tutti gli effetti. La giovane ed incantevole ragazza, ancora nubile, calamita tutte le attenzioni, subendone ogni tipo di conseguenza, da quelle più rosee, anche se rare, a quelle peggiori, umilianti, svilenti, disumanizzanti. Lei che intesse origami come a voler autodefinire il proprio domani, ha in realtà le mani legate dalle corrotte dinamiche del posto, che macchiano tutti e lasciano i lividi sui volti della maggior parte.
La nostra terra: valutazione e conclusione
“Come donna, anch’io ho provato tante volte nella mia vita attenzioni indesiderate e tentativi di manipolazione. Mi sono davvero identificata con Jagna, ho provato empatia per lei. All’inizio è invidiata e fraintesa, poi maltrattata e insultata, infine emarginata: per essere bella, per essere sognatrice e artistica, per essere appassionata e, soprattutto, per mettere in discussione il patriarcato sostenuto anche dalla chiesa. Era come se mi chiamasse. Questo film è la mia risposta“.
Queste le dichiarazioni di Dorota Kobiela Welchman che, dopo aver consigliato al marito la lettura del romanzo di Władysław Reymont, proprio durante la produzione del precedente Loving Vincent, decise con lui di dar nuova linfa allo scritto vincitore del Nobel. L’idea non poteva che essere più azzeccata per un film d’animazione di rara efficacia, struggente e rispettoso della storia, spietato e sincero allo stesso tempo, come doveva essere. Quando la partenza – in questo caso la storia narrata – è già vincente, saper rispecchiare anche nella tecnica la forza della trama è una sfida molto complicata da affrontare. Ma la trama intessuta da Reymont sembra essere la stessa tramite cui i coniugi Welchman hanno realizzato la tela del proprio lungometraggio. Condisce infine Lukasz Rostowski, alle musiche, le quali aggiungono quell’ingrediente sonoro in grado di ultimare perfettamente la ricetta. La nostra terra mostra un quadro per poi animarlo e strascinarvi lo spettatore all’interno, per raccontargli quanto marcio riesca a sporcare l’affresco di una società frustrante quanto vera.