Roma FF18 – La pitturessa: recensione del documentario di Fabiana Sargentini
La pitturessa ricostruisce, attraverso ricordi materiali e immateriali, la vita di Anna Paparatti, protagonista delle avanguardie artistiche degli anni ’60 e ’70. Lettera d'amore di una figlia alla madre che le ha insegnato la cura delle cose, ma che forse, per eccesso di cura, ha anche sacrificato qualcosa di sé.
Fabiana Sargentini, figlia letteralmente d’arte – la madre è Anna Paparatti, pittrice, performer e musa Dior; il padre, il gallerista Fabio Sargentini – e a sua volta artista dell’audiovisivo, prova ad afferrare il genio materno e, insieme, la difficoltà tutta femminile di coltivarlo parallelamente al lavoro di cura domestica. Fantasma (filiale) o intuizione (del vero) che sia, La pitturessa affronta con sensibilità l’enigma del talento e del suo sacrificio.
La pitturessa: se tra madre e figlia, c’è l’arte, tra arte e artista, c’è la figlia
Jamaica Kincaid, autrice di Autobiografia di mia madre, una volta ha dichiarato di essere diventata una scrittrice perché sua madre, prima di lei, con la sua vita, ha scritto la sua – della figlia – storia: trovare sé stessa, per Kincaid, ha significato trovare soprattutto sua madre. La psicoanalisi, quella che prevalentemente lavora sull’esplorazione del complesso materno nello sviluppo dell’identità femminile e sull’intergenerazionalità del trauma, ha da tempo raggiunto, attraverso l’esame dell’inconscio, la consapevolezza che ciascuna donna soffre in primo luogo della sofferenza della madre; cerca, in qualche modo, di riparare le incrinature del suo destino riproducendole o compensandole.
Il bel documentario di Fabiana Sargentini sembra muovere da questo presupposto: da regista, prova a realizzare un ritratto dell’artista che è stata e che è sua madre, Anna Paparatti, scivolando dalla posizione di figlia a quella di testimone del genio materno e provando a far dialogare le due posizioni, nella ricerca comune della chiave per risolvere l’enigma di un talento che, forse, non si è espresso a pieno a causa dell’incombenza della domanda d’amore (e di cura) proveniente dalla famiglia creata, famiglia sì artistica ed emancipata, ma pur sempre famiglia. Una domanda, allora, si solleva: (ri)scrivendo, attraverso il documentario, la vita della madre, Fabiana Sargentini non sta forse scrivendo non solo una pagina culturale della nostra Storia – Paparatti è stata un’esponente della pop art italiana e un perno attorno a cui si è mossa la scena artistica romana degli anni Sessanta e Settanta – quanto soprattutto il senso della sua stessa vita in rapporto all’ingombro genitoriale, a quel si può dire resti di lei nella sottrazione dai – e ai – genitori?
La pitturessa: valutazione e conclusione
Nata a Reggio Calabria nel 1936 da una coppia che avrebbe voluto un maschio (soprattutto la madre), amatissima dal padre, ma senza che questo, per ragioni culturali, potesse darlo a vedere, Anna Paparatti si è presto rifugiata nel disegno e nella pittura per scampare alla presa della realtà, ed anzi per riscriverla, per re-immaginarla più simile a sé. Gli anni dell’apprendistato romano e poi quelli parigini ne forgiano l’identità artistica: la vocazione all’arte è totale, totalizzante la sua implicazione soggettiva che non si limita alla produzione di quadri, bensì si estende alla trasformazione di sé stessa e di ogni aspetto della sua vita in opera d’arte. Ovunque vada, Anna Paparatti attrae energia creatrice e agenti creatori; se in una galleria espone lei o lei organizza eventi, allora significa che quel luogo può diventare un centro di gravità, un polo attorno a cui vorticano e precipitano idee. Innamoratasi di Fabio Sargentini, gallerista e curatore d’arte, Paparatti ha con lui una figlia, amatissima, appunto Fabiana, regista del film: è lei, una volta conquistato, da adulta, uno sguardo più distante, a evocare il sentimento infantile della “stranezza”.
Figlia di genitori di per sé anticonformisti, e pertanto ciascuno metà di una coppia a sua volta anticonvezionale, Fabiana Sargentini confessa di aver sempre cercato di camuffare l’anomalia rappresentata dalla sua educazione – più libertaria rispetto a quella dei suoi coetanei, quasi anarchica – con un’ostentata ricerca di conformità, un’adesione borghesissima alla vita. Ma oggi, forse, è arrivato il momento di alzare la voce o perlomeno distinguerla da quella di sua madre. Il suo cruccio, a scandagliare bene questo documentario che è anche e soprattutto una lettera di struggente e appassionato amore non solo per il seno materno, ma in primo luogo per l’anima della madre al di là del suo essere madre, sembra però essere quello di aver ostacolato, con la sua venuta al mondo e le sue richieste di cura, il talento di una donna che avrebbe potuto avere di più.
Non è così, assicura Anna Paparatti, ma dietro questo fantasma filiale si agita un’enorme questione: cosa resta dell’artista all’artista che diventa madre e come le identità che si moltiplicano e si assommano possano convivere e non divorarsi a vicenda. Ancora oggi, ci appare difficilissimo oltrepassare l’aut aut, e non è lineare davvero per nessuna trovare una confluenza tra desideri spesso vissuti come opposti: l’ambizione di affermare sé stesse e il desiderio di essere madri e di avere cura, per così dire convenzionalmente, di chi (e cosa) si ama.