La stanza degli omicidi: recensione del film con Uma Thurman e Samuel L. Jackson
Samuel L. Jackson e Uma Thurman, a trent'anni da Pulp Fiction e insieme a Joe Manganiello, scoprono con La Stanza degli Omicidi che arte e crimine sono più vicini di quanto sembri. Regia di Nicol Paone, il 6 giugno 2024 in sala.
Quella celebre volta che Uma Thurman e Samuel L. Jackson condivisero la scena, in realtà non la condivisero affatto. Perché in Pulp Fiction (1994), che festeggia i suoi primi trent’anni in sincrono con l’uscita nelle sale italiane – 6 giugno 2024 per Universal Pictures International Italy – di La stanza degli omicidi, regia di Nicol Paone, erano compagni di set e basta. Le linee narrative, talmente vicine da potersi sfiorare (l’anello di congiunzione, ovviamente, John Travolta). Insieme, però, li abbiamo visti solo nei photocall, nel press tour, o magari in occasione di celebrazioni retrospettive. Stavolta sono l’uno di fronte all’altra e buona parte dell’appeal del film si misura sul carisma dei due attori e sul senso, cinefilo e molto popolare, di questo ricongiungimento. Restando sul cast, non va dimenticato, in posizione leggermente defilata ma comunque importante, Joe Manganiello. Strutturalmente, il film è un ibrido di commedia e thriller. Mette insieme morte, avidità e gallerie d’arte. Una combinazione interessante, non del tutto valorizzata.
La stanza degli omicidi: l’insolito legame tra arte e crimine
Arte, vita e crimine. Sono le tre estremità della geometria (narrativa, tematica) costruita per La stanza degli omicidi dalla sceneggiatura di Jonathan Jacobson e rifinita, nell’ibrido formale thriller/commedia, dalla regia di Nicol Paone. L’idea è di fare satira del mondo delle dell’arte (e delle gallerie, e delle esposizioni) mostrandone i piccoli e grandi cortocircuiti, le ipocrisie, l’avidità, la corruzione (pratica e morale). È solo a metà della storia che capiamo perché la galleria newyorchese di Patrice (Uma Thurman) va così male. Fino a quel momento, era legittimo pensare che la tragicità della sua situazione – letteralmente, non ha una lira e i pochi artisti nel carnet la mollano come fosse il Titanic – dipendesse essenzialmente da lei. Su di giri, nevrotica, insicura, troppe pillole, un’attitudine vessatrice nei confronti di Leslie (Amy Keun), l’eroica stagista che le resta accanto nonostante tutto. Patrice, sfortunatamente, ha una cosa che manca ai colleghi galleristi – e questo è l’amo satirico più incisivo in mano al film – sarebbe a dire un’anima. Non ingrana sul lavoro (non ha che quello) perché non compra le recensioni positive, come fanno tutti. Perché non si inginocchia al cospetto dei potenti, perché non tollera la misoginia e gli abusi di potere dei maschi alfa dell’ambiente, perché non fa amicizia con i figli dei dittatori.
Ora, senza finire in zona Walter White, la storia fornisce alla protagonista l’occasione di riconsiderare le sue priorità; finirà in un vortice che la porterà addirittura a complottare contro un misterioso oligarca russo (Alexander Sokovikov). Era iniziata così: Gordon (Samuel L. Jackson) e Reggie (Joe Manganiello), lavorano per la malavita. Il film sceglie, sistematicamente, nell’ossessionante ripetitività del montaggio, di accostare arte e criminalità per farne i due poli dello stesso provocatorio discorso. Reggie è un killer a pagamento, non sa nulla d’arte ma è costretto a imparare, perché Gordon ha un’idea. L’idea è il plot twist imprevedibile e contorto su cui La Stanza degli Omicidi costruisce la sua premessa umoristica. Gordon deve riciclare denaro sporco e gli sembra che la galleria di Patrice faccia al caso suo. Lei accetta, dopo aver tergiversato un po’, dietro la promessa di un sacco di soldi, ma solo se starà al gioco. Perché c’è una condizione, in effetti: non deve vendere, per nessun motivo, le opere che Gordon porterà alla galleria. Sono croste senza valore, le ha dipinte Reggie, artista improvvisato. Non devono circolare.
Solo che Leslie, che non sa niente di tutto questo, ne fa circolare le immagini e il successo è così clamoroso che Reggie, senza volerlo e sotto lo pseudonimo di The Bagman, diventa dall’oggi al domani l’artista più conteso su piazza. Qui è dove La Stanza degli Omicidi potrebbe accendersi sul serio, puntando sul versante commedia degli equivoci – cosa succederà quando Patrice, che crede Reggie un banale spacciatore, scoprirà la verità? – o approfondendo la satira su arte e dintorni – il criminale inconsapevole che diventa il nuovo Banksy – ma non fa né l’una né l’altra cosa. Resta nel mezzo, gettando qui e là una strizzatina d’occhio agli spettatori – c’è pure un cameo di Maya Hawke che si diverte molto, si vede, a maltrattare sul set mamma Uma Thurman – e privilegiando il carisma della coppia di protagonisti. Fare satira è la seconda cosa più importante del film.
Un film che si accontenta, con due protagonisti di livello superiore
Gira tutto attorno a Uma Thurman e Samuel L. Jackson. In questo senso, La Stanza degli Omicidi è un film a due facce, meglio, a due livelli: a) il livello della narrazione e delle potenzialità della storia senza tener conto del resto e b) l’appeal, il carisma della coppia. Non c’è bisogno di perdere tempo a indagare chi vinca la partita. Lo script di Jonathan Jacobson non ha tutta questa voglia, neanche la curiosità forse, di costruire background soddisfacenti per i personaggi, né di strutturarne le motivazioni man mano che la storia procede – vale soprattutto per l’evoluzione di Patrice, da nevrotica insoddisfatta gallerista a regina del crimine – con logica e coerenza. La regia di Nicol Paone ha coscienza dei limiti e tenta di aggirare l’ostacolo puntando sulla satira, sull’approccio sdrammatizzante che minimizza gli impacci della storia liberando una catartica esplosione di umorismo. In maniera imprecisa e imperfetta, le cose funzionano.
Funzionano, perché Uma Thurman e Samuel L. Jackson sanno come si fa, a tenere il (proverbiale) piede in due staffe, giocando sul sottile equilibrio di toni esasperati e fragilità interiori. Gordon e Patrice hanno i contorni e lo spessore di due esseri umani credibili, per quanto assurdo sia il contesto che li circonda, perché gli attori che li abitano sanno quando è il momento di spingere il piede sull’acceleratore e quando è necessario bilanciare la frenesia, l’eccesso, la caratterizzazione esagerata. Si intromette, a turbarne l’equilibrio, l’asciuttezza senza fronzoli di Joe Manganiello. Non ha – lo sa benissimo – il carisma né la capacità di riempire la scena delle due co-star, per questo sceglie per il suo Reggie la strada della semplicità burbera. Una scelta lungimirante e apprezzabile, in controtendenza con lo spirito di un film che si accontenta di essere qualcosa di meno di quello cui potrebbe legittimamente aspirare.
La stanza degli omicidi: conclusione e valutazione
Bastano, Uma Thurman e Samuel L. Jackson, a bilanciare l’esilità della satira e i fragili parallelismi tra arte, vita e crimine? Non del tutto, ma non si può nemmeno liquidare con una scrollata di spalle l’effetto che fa vedere quei due lì, a trent’anni da quel film lì, mettere in gioco carisma e appeal per elevare le potenzialità di una storia che, vale la pena ripeterlo, si accontenta di volare basso. La Stanza degli Omicidi si fa bastare i suoi accenni satirici e le caratterizzazioni sopra le righe, senza portare la commedia a un livello di cattiveria, incisività e complessità soddisfacente. Funzionerà, se lo spettatore saprà sdoppiare le aspettative, pretendendo tanto dai protagonisti e non aspettandosi troppo dalla storia.