La strada dei Samouni: recensione del film
Vincitore a Cannes dell’Oeil d’Or, massimo riconoscimento per il documentario alla Quinzaine, La strada dei Samouni è un film dolente e angoscioso realizzato dai due occhi d’antropologo di Stefano Savona e dalle due mani d’artista-poeta di Simone Massi. Il primo, giornalista, è accorso a Gaza, attraverso tunnel egiziani, all’indomani della strage di civili che gli Israeliani hanno perpetrato nel 2009 all’interno di quell’operazione nota con il nome di ‘Piombo Fuso’, nella quale ventinove membri della famiglia Samouni (agricoltori, proprietari di splendidi uliveti) trovarono la morte. Il secondo, ex operaio divenuto illustratore, vive da sempre isolato tra le colline marchigiane, dove, al riparo da fragori urbani e fatue mondanità, si dedica interamente ai suoi corti d’animazione. Insieme hanno unito le forze per creare un’opera di grande caratura emotiva, ma zero retorica, sul dramma dei palestinesi braccati e trucidati in casa propria in una follia fratricida che ripete se stessa nel più desolato deserto di senso.
La strada dei Samouni: un film angoscioso e dolente, tra documentario e animazione
Costruito utilizzando la tecnica del climax, in un crescendo graduale che non ricatta ideologicamente ma costringe a sentire, La strada dei Samouni riconosce il suo apice lirico nella sezione centrale, con gli inserti animati che rappresentano l’orrore della carneficina come una lunga, claustrofobica evasione nell’incubo di una palette che si fa sempre più scura e graffiata: Simone Massi ha realizzato otto disegni per ogni secondo di film, per un totale di circa mezz’ora d’animazione su più di due ore di documentario. Artigiano-eroe, l’illustratore traduce in immagine disegnata l’esperienza terrifica della violenza così come percepita da una bambina, Amal, che, dopo aver visto morire il proprio padre, per tre giorni è rimasta sepolta dalle macerie, creduta anche lei morta ed invece viva, con schegge di proiettili ancora oggi conficcate nella sua piccola testa riccia e sognante. Strappata talvolta alla sua quotidianità di pre-adolescente superstite da improvvise malinconie, riemersioni intermittenti dello spavento e del dolore, Amal è l’inconsapevole fulcro di una testimonianza visiva che sostituisce ai simboli un’umanità vera e sorretta da un imperativo di dignità, che prova a ricostruire senza cedere alla facile consolazione della vendetta.
La testimonianza della violenza, senza retorica
Filmando le mosche che sfiorano i volti dei Samouni, i denti screziati dei bambini o i loro disegni allegramente stentati, Savona depoliticizza un film che, se si fosse piegato al messaggio politico, avrebbe perso la sua forza intrinseca, quella, cioè, di comunicare in modo inequivocabile e, pur nella delicatezza, assertivo che non si può e non si deve più affrontare il conflitto arabo-israeliano in termini intellettuali o, peggio, politici. Non c’è spazio, di fronte alla paura dei bambini, per il pensiero lento e la comprensione, per la strumentalizzazione ideologica o la meditazione colta sui moventi. Di fronte alla paura dei bambini e alla loro comunque miracolosa capacità di reazione, si può solo sperimentare con i sensi l’angoscia di trovarsi soli e feriti, in un intrico apparentemente onirico che non si riesce a decifrare e che, perversamente, non è il prodotto di una surrealtà distorta, ma di una iperrealtà incomprensibile nella sua ferocia senza alibi. Il compito del cinema è, forse, allora, solo quello di restituire la testimonianza di ciò che è inspiegabile. La strada dei Samouni lo porta al termine con diligenza e struggente sobrietà, con una sua grazia resistente alla gratuità del male che pur si è costretti a documentare.
La strada dei Samouni è in sala dall’8 ottobre distribuito da Cineteca di Bologna.