La taverna dell’allegria: recensione
Lui bravissimo a cantare. L’altro a ballare. Il primo lui in questione è nientemeno che Bing Crosby, che in La Taverna dell’allegria (1942) interpreta Jim, un cantante del mondo dello spettacolo, stanco di lavorare 365 giorni l’anno con turno doppio durante le feste e deciso ormai a trasferirsi in campagna nel Connecticut, assieme alla sua bella e promessa sposa Lila. L’altro non è che Fred Astaire, che qui interpreta Ted, compagno di palco, amante della bella vita, e amante pure di Lila, con cui progetta di scappare e di continuare gli show in giro per il Paese.
La verità viene a galla la notte della Vigilia di Natale. Il povero Jim viene lasciato solo, con il sogno di diventare un contadino tutto da costruire. Passerà un anno, pieno di difficoltà e di trambusti, fino a che Jim se ne uscirà con un’altra idea brillante: fare della sua fattoria una locanda, aperta solo durante le 15 festività nazionali americane, in cui si potrà mangiare, festeggiare, e godere di spettacoli a tema. Non resta che cercare le star, ballerini e cantanti. Purtroppo, però, Ted e Laila deridono l’idea di Jim e l’agente Danny Reed se ne tiene alla larga.
Quello che nessuno poteva immaginare è che la volitiva Linda Mason ha le carte in regola per diventare una stella, e nella notte di Capodanno in cui la Taverna aprirà finalmente i battenti, incanterà tutti, Jim compreso, con la sua immensa voce.
Non passerà troppo tempo prima che Ted arrivi a rovinare tutto, a minare la felicità e l’amore nascente tra Jim e Linda. Ubriaco, sconsolato per essere stato a suo volta lasciato da Lila, volata a sposare un ricco milionario in Texas, troverà rifugio nella locanda e ballerà come mai aveva ballato.
Siamo davanti a una commedia classica, di quelle fresche e spumeggianti, dotata di quel sapore di genuinità tipico delle commedie americane di quegli anni. Costruita attorno ai numeri di danza e di canto dei due inarrestabili protagonisti, la pellicola è responsabile di aver lanciato e di aver fatto conoscere l’intramontabile White Christmas (vincitrice nel 1943 di un Oscar) che ancora risuona nel periodo delle feste. La Taverna dell’Allegria è un titolo minore nella lunga filmografia di Fred Astaire, ma non meno importante.
La taverna dell’allegria: “Sto sognando un bianco Natale, in cui ogni cartolina natalizia che scrivo possa rendere le tue giornate felici e radiose” (White Christmas)
Dal Natale al Capodanno, dal San Valentino alle feste di Lincoln e di Washington passando per Pasqua e il Giorno del Ringraziamento, assistiamo allo scontro tra due amici che amano confrontarsi, all’emergere di una stella per niente stupida, a siparietti irresistibili che non appesantiscono, ma fanno salire la nostalgia per i tempi d’oro di Hollywood, in cui tutto era spettacolo.
La svolta metacinematografica del film, tra l’altro, è in grado di dare una marcia in più alla visione, con Hollywood che si è impadronita dell’idea di Jim per farne un film, con Ted e Linda lanciati come star, e quella locanda che rivive negli studios, con macchinisti che entrano in scena, effetti neve mostrati in azione, e il romanticismo che bussa alle porte del freddo cuore dell’industria.
Se tutto è retto alla grande da due mattatori come Bing Crosby e Fred Astaire, splendidamente affiatati, la scena è però rubata dalla bellissima Marjorie Reynolds, con la sua voce cristallina e le sue movenze eleganti. Non da meno sono comunque i comprimari, dal classico agente che pensa solo agli affari Walter Abel, all’altrettanto classica domestica di colore (va da sé, chiamata Mamie) interpretata da Louise Beaves e responsabile dei siparietti comici più dolci assieme ai suoi due figli.
La Taverna dell’Allegria intrattiene così grazie ad attori in perfetta forma, ad una storia che si lascia godere nella sua semplicità, risultando ancora fresca e godibile nonostante i 73 anni passati. Trovando la sua perfetta collocazione in questi giorni di vacanza, in cui ci ritroviamo a sognare un White Christmas, o una locanda altrettanto genuina in cui passare le feste.