La tenerezza: recensione del film di Gianni Amelio
La tenerezza è il nuovo film di Gianni Amelio con Renato Carpentieri, Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno, Greta Scacchi.
E se tutto fosse solo una scusa? Se ogni nostra gentilezza, ogni nostra tenerezza, fosse soltanto un pretesto per farci volere bene? Insinuandosi tra le pieghe del sorriso e le crepe del cuore Gianni Amelio mette in scena La tenerezza: un film che parla dell’amore svestendolo di ogni aulica logica, che del rispetto reciproco ne fa una zavorra inutile, tirando fuori il peggio di noi, il peggio del mondo, in una lotta in cui non ci sono vincitori né vinti, solo superstiti in attesa di redenzione.
Un’opera fulgida, grezza e armoniosa. La tenerezza di Gianni Amelio esiste a prescindere dai concetti di felicità, famiglia, solitudine, amicizia, eppure esiste per darne un significato, per scrollarci di dosso la vita appiccicata alla routine quasi per sbaglio, l’esistenza che inconsapevolmente aderisce alla bellezza.
Ci piace iniziare con una frase che segna la fine del film in modo da creare una mappa che ci faccia comprendere dove siamo diretti e cosa stiamo cercando. La poesia araba messa tra le labbra di Elena (Giovanna Mezzogiorno) recita: “La felicità non è una meta da raggiungere ma una casa in cui tornare; non è davanti ma dietro; tornare non andare”.
Una poesia che collauda l’intera pellicola, spostando il punto focale dalla tenerezza alla felicità e facendoci notare che le due cose sono strettamente collegate.
Già, perché se è vero che l’età fanciullesca corrisponde il più delle volte al momento più gioioso dell’esistenza, c’è da dire che per essere classificato come tale gli occorrono un’infinita quantità di tenerezze: atti in cui ci si sente amati, accuditi; attenzioni di cui abbiamo bisogno ma che sono al contempo un bisogno altrui. E proprio questa età nei protagonisti de La tenerezza è manomessa e soggetta a stranezze: chi sta crescendo senza padre, chi non ha mai avuto una casa, chi non ha mai avuto una famiglia. Tutti i personaggi si ritrovano inconsapevolmente con una mancanza di base che li spinge a incontrarsi e scontrarsi, in una miscellanea di pensieri e parole capace di dar vita a un vero e proprio capolavoro.
Il protagonista è l’avvocato settantenne Lorenzo Marone, di cui veste i panni un meraviglioso Renato Carpentieri, perfettamente incline a svolgere la parte dell’arido e ottuso anziano. Il suo personaggio è un infinito campo di terra secca; inospitale ma non del tutto da gettare via. Un campo che è sinonimo di vita, portata avanti con il dolore, non quello ricevuto ma donato – il fatto di aver lasciato la moglie, morta di crepacuore, per un’altra che neppure amava – e adesso libera di bloccarsi e andare allo scatafascio.
Ma sono le vite degli altri, quelle che viste dalla finestra sembrano perfette, a innestare in Lorenzo una strana forma di umanità e felicità.
Si tratta di Fabio (Elio Germano) e Michela (Micaela Ramazzotti): una giovane coppia con due bambini trasferitasi nell’appartamento di fronte al suo. Sono belli, felici, spaesati, eppure qualcosa sembra nascondersi negli occhi di Fabio, un velo di infelicità e incapacità di amare, un’innocenza perduta che riaffiora nei momenti più inaspettati, come quando lo vediamo giocare con l’elicottero telecomandato del figlio o chiedere prepotentemente al negoziante il vagoncino d’epoca dei vigili del fuoco o ancora quando risponde, alla domanda “Che lavoro fate?”, “Quello che ha voluto mia madre”.
Personaggi a tutto tondo, delineati in tutte le loro sfumature di genitori, figli, orfani, amici; personaggi che sanno esistere sulla scena e sforare lo schermo cinematografico dando l’impressione allo spettatore di abitare realmente in quella Napoli inedita e periferica in cui la vita si lascia bagnare i lembi dalla bellezza.
Vediamo così in Lorenzo l’identificazione perfetta dell’anziano in pensione schivo e riluttante, in Fabio si configurano tutti quegli uomini all’apparenza tranquilli, Michela è invece una vera e propria forza della natura, una donna-bambina che sa prendere tutto con filosofia e allegria, che col suo atteggiamento un po’ stralunato riesce ad aprire il cuore del protagonista.
Elena (Giovanna Mezzogiorno), figlia di Lorenzo e madre single del piccolo Francesco, è il vero eroe della storia.
Traduttrice presso il tribunale, è una donna autonoma, dura e al contempo fragile. Una donna che cerca in tutti i modi di estrapolare il lato positivo del padre e alla fine ci riesce, in un atto atavico, lineare e commovente.
Di tutt’altra pasta è il fratello Saverio (Arturo Muselli) mentre i bambini (Bianca Panicci, Giovanni Esposito, Renato Carpentieri Jr) sono un vero e proprio spettacolo e si mostrano in tutta quella famelica sete di verità e conoscenza, in tutto il loro incantevole e ironico mostrare la verità.
La tenerezza è un film che stupisce, abbraccia l’anima e regala emozioni limpide e sincere; un’opera che non giudica l’umanità ma la accarezza per estraniarla dal male gratuito che spesso ci facciamo. Giocando su riprese immersive e lasciandoci spesso in bilico tra illusione e realtà, Gianni Amelio crea una rete distopica di caratteri, regalandoci non una lezione bensì una riflessione sulla vita e sull’importanza che concediamo agli affetti.
Il tutto irrorato da una colonna sonora che, dall’inizio alla fine, si inerpica come un usignolo lamentoso, esorcizzando il mondo.
La tenerezza è al cinema dal 24 aprile con 01Distribution. Qui trailer e trama.