La terra dei figli: recensione del film di Claudio Cupellini
Tratto dal graphic novel di Gipi, La terra dei figli è stato presentato al 67esimo Taormina Film Festival.
Dopo la presentazione in anteprima al Taormina Film Festival, La terra dei figli, diretto da Claudio Cupellini, arriva al cinema a partire dal primo luglio. Una proposta decisamente non estiva, se si associa questa stagione a temi e narrazioni leggere, ma è tanto la fame di storie, di cinema e di emozioni che senz’altro il pubblico saprà apprezzare questo ottimo film. L’opera di Claudio Cupellini segue in maniera abbastanza fedele il graphic novel da cui è tratto, La terra dei figli di Gipi, pubblicato da Coconino, staccandosene soprattutto nel finale e nella scelta di concentrarsi su un solo protagonista, anziché due. Nella trasposizione cinematografica, infatti, lo sguardo narrante è quello di Figlio, interpretato dal particolarissimo Leon De La Vallée. Attorno a lui una serie di comprimari memorabili, tutti molto ben recitati e scritti, credibili nonostante il mondo irreale in cui si muovono.
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La terra dei figli è una metafora del futuro prossimo
Figlio vive in una landa desolata, che intuiamo essere stata un tempo il nostro Paese. Tuttavia le relazioni e la società in generale si basano su criteri di pura sopravvivenza, dove i più deboli sono destinati a soccombere sotto i piedi spietati di chi ha più risorse, fisiche o economiche. Le donne sono presenze rarissime, e sempre relegate in ruoli di bestie o di emarginate, il baratto è tornato ad essere un sistema commerciale e la morte è pressoché ovunque. I bambini, poi, sono praticamente estinti. Figlio dunque vive con suo Padre (Paolo Pierobon), in un rapporto apparentemente freddo, quasi di servo e padrone. O, meglio, di cane e padrone. Terrorizzati dalla presenza minacciosa del vicino Aringo (Fabrizio Ferracane), sopravvivono come possono, finché un male che da tempo affliggeva Padre lo porta via per sempre. Da quel momento Figlio assapora una dolorosa libertà, un’anarchia pericolosa, che lo spinge all’avventura in questo mondo tremendo. Incontrerà una serie di personaggi, col pensiero fisso su un unico obiettivo: decifrare il contenuto di un quaderno che Padre scriveva ogni giorno, fino a poco prima di morire.
Cosa sia questa terra in cui si muove Figlio, chi siano i personaggi che incontra e – soprattutto – cos’è successo al mondo come lo conosciamo, sono interrogativi che accompagnano lo spettatore per tutto il film. La sceneggiatura è “giusta” nel non rivelare, nel non perdere tempo e fascino in spiegazioni univoche, lasciando così un’aura realistica, come se lo spettatore si trovasse realmente in un mondo in cui pochi o nessun elemento aiutino ad orientarsi. In fondo, come il protagonista stesso. La metafora dell’autore (del graphic novel da cui il film è tratto) è più chiara leggendo il fumetto: ovvero “la terra dei figli” è la rete, un posto violento e desolato, governato da falsi dei e superstizioni, che giustificano un antropofagismo culturale ed effettivo. In poche parole, la distopia di Gipi è esattamente quella in cui ci troviamo.
Narrare per archetipi, inventare storie nuove
L’epopea di Figlio e le figure che incontra, oltre al motore della sua azione – una sorta di riscatto affettivo e di scoperta della propria umanità nel concetto proibito di “amore” – ricorda un po’ il romanzo per ragazzi italiano più celebre, Pinocchio. Come il burattino collodiano, Figlio compie un cammino di formazione, incontrando vari tipi umani da cui imparare a guardarsi, o di cui provare a fidarsi. Anche la “strega” interpretata da Valeria Golino è una sorta di Fata Turchina, una detentrice del buono che c’è nelle persone, una guardiana che, per un certo periodo, protegge e accudisce a distanza il protagonista. La coppia di fratelli Matteo e Lorenzo (rispettivamente, Franco Ravera e Maurizio Donadoni) sono un po’ come il Gatto e la Volpe, apparentemente amici, ma ingannatori e violenti a loro volta. Il terribile Aringo, dalla voce grossa e dal disprezzo per i bambini, è Mangiafuoco, e così via. Si tratta di un archetipo narrativo potentissimo, che mostra, attraverso la vicenda individuale, il contesto generale in cui il protagonista si muove e invita a fare come lui. Viaggiare, metaforicamente parlando, per scoprire il contenuto di un messaggio mediato, per dedicare il giusto tempo a una lettura, dando spazio alla propria fame di sapere cosa c’è dietro il simbolo, lo scarabocchio apparentemente inespressivo. Agire in potente controtendenza nell’epoca del tutto e subito, dei sentimenti posticci, dell’odio gratuito. Ma anche proteggere un baluardo di umanità che si cela nei rapporti tra esseri umani, tra padre e figlio, tra chiunque sia in grado di provare pietà e – parafrasando ciò che dice Valerio Mastrandrea/Il Boia – smetterla di perdonarsi tutto.
Perché vedere La terra dei figli
Oltre ai ricchissimi contenuti, e alle diverse chiavi di lettura, La terra dei figli di Claudio Cupellini è un film tecnicamente molto valido. La regia segue la narrazione dilatata del graphic novel, così come la crudezza di determinate scene. La bruttezza dei rapporti è sublimata da un modo di ritrarli davvero splendido, con un’ottima scelta fotografica e uno sapiente uso dei bei paesaggi in cui si ambienta la storia. Molti campi lunghi per mostrare la desolazione, la solitudine, ma anche la bellezza spietata di una Natura malata e quel fascino macabro di un organismo morente. Da un punto di vista attoriale, la scelta e la direzione fanno il resto, mettendo insieme un cast strepitoso. Il monologo di Mastrandrea, che darà la lettura di tutto il film, è una di quelle scene che resteranno nella storia del cinema. In particolare, questa scena è una necessaria verbalizzazione di un concetto che nel fumetto è lasciato sottinteso, e funziona in entrambi i casi: La terra dei figli è una storia potente, che sopravvive intaccata e rafforzata nel passaggio transmediale.