L’Albero dei Frutti Selvatici: recensione del film
L'Albero dei Frutti Selvatici si erge su una domanda: abbracciare radicalmente il domani non porta forse inevitabilmente a rinnegare se stessi e la propria identità?
Il cinema di Nuri Bilge Ceylan è sicuramente tra i più sensibili, originali e raffinati che l’Europa del nuovo millennio abbia mai espresso.
Fattosi conoscere con il bellissimo Uzak che nel 2003 gli ha fruttato il Gran Prix a Cannes, è diventato uno degli ospiti più affezionati e più considerati dalla rassegna francese, a cui ha regalato altri capolavori come Le Tre Scimmie, C’era una Volta in Anatolia e Il Regno d’Inverno.
A Cannes questo suo ultimo L’Albero dei Frutti Selvatici ha strappato applausi a critica e pubblico, e pur senza aggiudicarsi la Palma d’Oro (andata al fantastico Un Affare di Famiglia di Hirokazu Kore’eda) nutre serie speranze di poter aggiudicarsi l’Oscar come Miglior Film Straniero. E se succederà sarà con pieno merito.
L’Albero dei Frutti Selvatici: la poesia del paesaggio turco nel film di Nuri Bilge Ceylan
Ceylan fa partire l’iter narrativo di L’Albero dei Frutti Selvatici dalla periferia turca dove lo spettatore incontra Sinan (Dogu Demirkol) neolaureato che ha appena fatto ritorno nel suo piccolo paese d’origine, per ricongiungersi con la sua famiglia.
Il ragazzo coltiva il sogno di pubblicare un libro che ha scritto cercando di parlare della sua visione del mondo e delle cose, ma deve scontrarsi con una difficilissima situazione familiare che vede il padre Idris (Murat Cemcir) alle prese con pesanti debiti di gioco, mentre la madre (Bennu Yildirimlar) cerca di porre un freno alla situazione requisendone stipendio e carte di credito.
Sinan, vista la difficoltà nel trovare una casa editrice per pubblicare il suo libro, ha di fronte due strade: diventare insegnante vincendo uno dei tanti concorsi (scelta che lo allontanerebbe dalla famiglia e dal suo paese) o addirittura sposare il servizio militare per racimolare qualche soldo.
La fotografia di Gökhan Tiryaki valorizza in modo perfetto gli straordinari paesaggi di una Turchia dove Instanbul, la metropoli, la capitale, incombe ma non è centrale, non quanto i paesaggi della Gallipoli quasi distante e lontana nel tempo e nello spazio che il film di Ceylan pone al centro di un racconto generazionale e politico.
La luce, i colori, l’esterno e l’interno, sono il perfetto specchio di un film che grazie alla fantastica sceneggiatura di Ceylan, Akin Aksu ed Ebru Ceylan, funge da metafora di un paese a metà tra passato e futuro, tra tradizione e modernità, un film che ci parla della sua realtà politica e culturale, ma anche a ritratto familiare universale.
Lo scontro generazionale messo in scena in L’Albero dei Frutti Selvatici infatti, ci parla soprattutto di un conflitto profondo che fa della Turchia dei nostri giorni un paese diviso, incerto, dove i giovani si trovano sovente costretti a seguire strade, percorsi e scelte decise dalle vecchie generazioni, ancorate a dogmi illogici e fuori dal tempo.
Ceylan è maestro nel creare quindi un film dove il protagonista si muove inseguito da colpe e responsabilità non sue, da un mondo di adulti, vecchi, che con paternalismo e spietatezza gli impone sogni e futuro, rifugge le sue parole ed i suoi pensieri, e a cui il giovane si ribella ponendo dubbi e questioni scomode, lontane dall’immobilità che è agognata da una parte della Turchia odierna.
Lo scontro generazionale in L’Albero dei Frutti Selvatici
L’Alberto dei Frutti Selvatici affascina e rapisce per la straordinaria maestria con cui vengono a coniugarsi al suo interno dialoghi ricchi, mai banali e neppure eccessivi o artificiosi, con una regia ad un tempo essenziale ed evocativa, capace di sublimare il quotidiano e rendere intellegibile e vicino a chiunque il dramma di un padre e di un figlio così simili eppure così lontani.
In un certo senso Ceylan rappresenta un ideale passaggio di consegne, una speranza e una responsabilità per il futuro ai giovani turchi, chiamati a raccogliere il testimone da padri che si sono dimostrati in tutto e per tutto incapaci di fare del loro paese, della loro vita un posto migliore.
Il dramma familiare, esistenziale, si intreccia con il rapporto con la natura, con il tempo, a cui l’uomo è chiamato ad obbedire pur se sovente pare dimentico del suo dipendere da loro.
Ma imperante torna il quesito che pervade L’Albero dei Frutti Selvatici per tutta la sua durata: abbracciare radicalmente il domani non porta forse inevitabilmente a rinnegare sé stessi e la propria identità?
Si tratta di una domanda che il regista rivolge a sé stesso, allo spettatore, dai personaggi si ricollega con il mondo caotico dei nostri giorni, dove le razze, le religioni, le nazioni si mescolano, sono chiamate a cambiare con una velocità assurda, tanto che l’immobilismo turco dell’era del satrapo Erdogan anche grazie a questo film più che sbagliato sembra a tratti ridicolo.
E mentre il protagonista cerca la sua risposta negli altri, in sé stesso, nella bellissima Anatolia dagli struggenti paesaggi, non possiamo fare a meno di pensare a quanto egli, con la sua grande e complicata famiglia, il suo paese così ostile al nuovo e al diverso, la sua disperata ricerca della felicità, non sia uguale ai tanti giovani dell’occidente disperato e mutevole dei nostri giorni.