L’anno del dragone: recensione del film di Michael Cimino
Con L'anno del dragone Michael Cimino fa un torbido ritratto della criminalità e della corruzione newyorkese.
L’anno del dragone è un film del 1985, diretto da Michael Cimino e scritto da lui stesso insieme a Oliver Stone. Pur senza sbancare i botteghini, la pellicola rappresentò un piccolo passo avanti per la carriera di Cimino, che dopo il trionfo di critica e pubblico conquistato con Il cacciatore era stato coinvolto in uno dei maggiori fiaschi commerciali dell’epoca, ovvero I cancelli del cielo. I protagonisti de L’anno del dragone sono Mickey Rourke, John Lone, Caroline Kava e Ariane Koizumi, che dipingono un torbido affresco della malavita organizzata cinese del periodo all’interno della città di New York.
Il determinato e ligio al dovere Capitano Stanley White (Mickey Rourke), reduce del Vietnam, viene assegnato al quartiere di Chinatown di New York, con l’arduo compito di sgominare la criminalità organizzata asiatica. Parallelamente, il giovane Joey Tau (John Lone) assurge alla vetta della gerarchia della Triade, creando una netta frattura fra sé e i boss più anziani e fra l’intera organizzazione e la polizia di New York, con la quale si era creato in precedenza un tacito e delicato accordo. Con il supporto della reporter Tracy Tzu (Ariane Koizumi), White comincia così una dura lotta contro la Triade e contro i propri demoni personali.
L’anno del dragone: un torbido ritratto della criminalità e della corruzione newyorkese
Undici anni dopo Roman Polanski e il suo Chinatown, Michael Cimino regala un altro cinico e disilluso quadro della malavita organizzata e della sua collusione con le istituzioni statunitensi. La Chinatown in questione stavolta non è quella di Los Angeles ma di New York, ricostruita in larga parte in studio in North Carolina, con un lavoro certosino da parte di Cimino e del suo staff che ingannò persino Stanley Kubrick (nato e cresciuto nella Grande Mela), non siamo più nel noir (o nel neo-noir), ma all’interno del puro cinema poliziesco, ma c’è la stessa volontà di addentrarsi nei meandri più reconditi del potere e del crimine e di raccontare anche e soprattutto i personaggi coinvolti in un gioco più grande di loro.
Traghettatore infernale all’interno di questo incubo urbano è il personaggio di Stanley White, magistralmente interpretato da Mickey Rourke, in una delle migliori interpretazioni della sua carriera. White è un uomo di legge enigmatico e contraddittorio, tanto desideroso di contrastare il crimine e la corruzione quanto abile a distruggere gran parte del proprio lavoro con un atteggiamento irrequieto e tracotante, che lo porta a mettersi contro i suoi superiori e a mandare in malora anche la sua vita privata e in particolare il rapporto con la moglie, desiderosa di stabilità e di una vera e propria famiglia. A capo della fazione opposta, quella della temibile Triade, un uomo altrettanto arrogante e imprudente come Joey Tau, intenzionato a scontrarsi con il suo sistema e con la sua gente in nome di una distruttiva guerra con la polizia.
L’anno del dragone: due antieroi in lotta fra loro e contro il sistema
La Guerra del Vietnam superbamente raccontata da Michael Cimino nel suo capolavoro Il cacciatore è finita, ma non ha mai veramente abbandonato l’animo di White, che nello storico conflitto ha maturato una repulsione verso gli asiatici e la spregiudicatezza che lo muove anche nella sua vita post bellica. Il suo nuovo Vietnam è New York, il suo nuovo nemico un immigrato come lui (White ha origini polacche), anch’esso isolato all’interno della sua stessa organizzazione e desideroso di fare piazza pulita nel suo clan, infischiandosene dei sottili equilibri maturati e dei necessari compromessi adottati. Il loro è un duello senza confini e senza regole, con i toni e le sfumature del cinema western, che non a caso sfocia in uno scontro finale che sembra mutuato dai classici duelli di questo glorioso genere.
Michael Cimino dirige con un’eleganza e un’accuratezza che hanno pochi eguali, accompagnandoci con lunghi piani sequenza all’interno dei vicoli più infimi e soffocanti di New York, dove il caos e il multiculturalismo deflagrano improvvisamente in scontri di inaudita violenza, dove non ci sono vincitori né vinti, ma solo un sistema marcio che continua incessantemente a propagarsi. Le avvolgenti musiche di David Mansfield esaltano l’evocativa fotografia di Alex Thomson e le convincenti prove di tutto il comparto attoriale, creando un insieme che non mostra alcuna debolezza di rilievo.
L’anno del dragone affascina e spiazza ancora oggi lo spettatore proprio per la sua unica maniera di essere al tempo stesso lurido e raffinato, freddo e appassionato, con le luci e i colori accesi dei sobborghi di Chinatown che si incrociano con gli scarni e asettici interni e con una nascente passione che si fa strada fra la corruzione e la violenza, come un fiore che germoglia timidamente fra le macerie.
L’anno del dragone: un gioiello prezioso e nascosto della settima arte
Nonostante la poca incisività del personaggio di Tracy Tzu, più efficace come residua fiammella di umanità di White che come mediatrice nello scontro culturale e sociale fra Occidente e Oriente, Michael Cimino riesce a mantenere sempre alto il ritmo e la tensione del racconto, accompagnando i suoi personaggi da narratore silenzioso ed equo, ma delineando al tempo stesso un quadro di generale smarrimento di valori e punti di riferimento, ben simboleggiato dall’arco narrativo dei due protagonisti, sempre più soli nella loro progressiva autodistruzione, come sassolini all’interno di un ingranaggio ben rodato e oliato. Lo struggente finale mostra l’inevitabile scontro fra due ideali uguali e contrari, strizzando parallelamente l’occhio alla possibile necessità di amalgama fra la società cinese e americana e fra i loro pregi e difetti, idea che oggi ci appare tutt’altro che irrealistica.
L’anno del dragone è un gioiello prezioso e nascosto della settima arte, simbolo dell’intera poetica di Michael Cimino, fatta di antieroi rudi e solitari, in perenne lotta con nemici fuori e dentro di loro. Un film che con il tempo è riuscito a risalire la china e guadagnarsi il meritato status di cult, dopo essere stato malamente snobbato dagli addetti ai lavori dell’epoca. Doveroso infatti segnalare le cinque candidature di questa pellicola per i cosiddetti Oscar al contrario, ovvero i Razzie Awards, in un’annata contrassegnata da una pioggia di questi temuti riconoscimenti su Sylvester Stallone e sul suo Rocky IV: simbolo della cecità e della scarsa lungimiranza che a volte attanagliano anche i critici meno austeri.