L’apparenza delle cose: recensione del film Netflix con Amanda Seyfried
La recensione del thriller-horror tratto dal romanzo di Elizabeth Brundage, con Amanda Seyfried e James Norton. Disponibile su Netflix dal 29 aprile.
Non capita tutti i giorni che uno come Stephen King spenda delle parole positive sul lavoro di un o di una collega. Di recente è capitato alla connazionale Elizabeth Brundage, autrice del romanzo All Things Cease to Appear che ha riscosso il plauso del maestro del terrore. Ma ora che il suddetto bestseller è diventato un film targato Netflix, rilasciato sulla piattaforma a stelle e strisce a partire dal 29 aprile 2021, saremmo molto curiosi di venire a conoscenza del parere del noto scrittore e sceneggiatore in merito all’adattamento firmato a quattro mani da Shari Springer Berman e Robert Pulcini. Se conosciamo un po’ i suoi gusti siamo sicuri che non avrà gradito quanto trasposto sullo schermo, preferendo di gran lunga la matrice letteraria alla sua trasposizione.
L’apparenza delle cose: il passaggio dalla matrice letteraria allo schermo non ha dato i frutti desiderati
Il passaggio dalle pagine originali allo schermo non ha dato i frutti desiderati, nonostante si sia cercato di mantenere inalterate le linee guida tracciate dall’autrice. La compressione delle cinquecento e passa pagine del libro nelle due ore tonde tonde di timeline da parte degli stessi registi ha tolto il respiro alla storia e alle sue dinamiche interne. Il ché è dipeso con moltissima probabilità dalla pressione esercitata sul plot e soprattutto sulla sua capacità di generare tensione latente per poi farla deflagrare nel corso dei capitoli, al fine di piegare il tutto a favore delle esigenze della riscrittura cinematografica.
Il fatto che a occuparsene sia stato un tandem collaudato come quello formato da Berman e Pulcini poteva in qualche modo fare ben sperare circa la riuscita, ma con il senno di poi la scelta di affidare loro il compito non è stata tanto saggia. Questo perché la storia e soprattutto il genere alla quale appartiene L’apparenza delle cose sono lontane anni luce dalle corde suonate in precedenza dalla coppia newyorchese in pellicole come Il diario di una tata, American Splendor o Un perfetto gentiluomo. Sposiamo in pieno la necessità dei registi di misurarsi con altro e non mettiamo in discussione le rispettive capacità tecniche, ma il risultato ci ha lasciato con non poco amaro in bocca.
Lo sconfinamento dalla commedia all’horror-thriller per la coppia Berman-Pulcini si traduce in un nulla di fatto
Il confrontarsi con un thriller-horror dalla forti tinte sovrannaturali è ben altra cosa e, infatti, l’esito parla da sé. Nemmeno la presenza di nomi affidabili davanti la macchina da presa come Amanda Seyfried e James Norton è servita da salvagente, quel tanto da mantenere a galla il film. I due si calano nella panni di una coppia di Manhattan che si trasferisce in campagna in un paesino della Hudson Valley, per la precisione in quel di Chosen. Lei restauratrice, lui accademico, si ritrovano a vivere con la figlia in una villa di fine Ottocento immersa nel verde. Un luogo assai isolato e tranquillo. Forse un po’ troppo, visto che l’incantevole cornice e la tranquillità che sembra governare viene ben presto spezzata da fatti davvero strani e inspiegabili. Viene facile intuire di cosa si tratti, almeno per chi che come noi di situazioni analoghe sullo schermo ne ha viste di cotte e di crude. L’identikit del film in questione è fin troppo chiaro e richiama immediatamente al filone delle ghost-house, con tanto di presenze bloccate tra le mura della casa a causa di fatti di sangue consumati anni prima.
L’apparenza delle cose: gli elementi dell’horror sovrannaturale non riescono a coesistere con quelli del thriller psicologico
Ed ecco palesarsi sullo schermo l’ennesimo horror con casa infestata da spiriti tormentati, con la famigliola di turno costretta sua malgrado a farci i conti. Fin qui tutto nella norma, per non dire prevedibile, con un copione fatto di dinamiche e one-lines che hanno il gusto inconfondibile della minestra riscaldata per l’occasione. L’apparenza delle cose è tale, per cui non c’è nulla di nuovo o inedito da registrare. Per cui se cercate qualcosa in tal senso, forse è meglio che andate a cercarlo altrove, perché in circolazione di analogo c’è molto, ma molto di meglio.
Il film, infatti, non spaventa quando e quanto dovrebbe, non sfrutta mai l’espediente del jump-scare e nemmeno riesce a tenere braccato lo spettatore con un sali e scendi di tensione, che invece resta monocorde. Ciò basterebbe a rimandare il pacco al mittente, se non fosse per il tentativo dei registi di rincarare la dose inserendo nel tessuto drammaturgico della pellicola gli ingredienti di un thriller psicologico che scava nel matrimonio dei due protagonisti, con tanto di tradimenti, dissapori, non detti e malefatte che porteranno alle estreme conseguenze. Ma anche qui non si assiste ad alcun beneficio. Diversamente dal romanzo, nel quale la componente mistery e quella horror riescono a coesistere, nell’adattamento invece la loro incompatibilità finisce con il generare un cortocircuito che manda tutto in black-out. Una reazione che manda in crash lo script e la sua messa in quadro.