Roma FF16 – L’arminuta: recensione del film di Giuseppe Bonito
Il film, nella selezione ufficiale della 16esima edizione de La Festa del Cinema di Roma, che si tiene nella Capitale dal 14 al 24 ottobre, porta su schermo uno scontro brutale tra realtà sociali differenti attraverso gli occhi puri e disincantati di una 13enne.
L’arminuta è il nuovo lungometraggio diretto da Giuseppe Bonito, recentemente in sala con Figli (2020), ultimo film sceneggiato dal compianto Mattia Torre (Boris, La linea verticale) che ha fortemente voluto la sua mano per la realizzazione. Il titolo, ispirato all’omonimo romanzo di Donatella di Pietrantonio, vincitore del Premio Campiello nel suo anno di uscita, il 2017, è una profonda esplorazione delle divergenze tra classi sociali italiane negli anni ’70 vissuta attraverso l’esperienza di una ragazzina senza nome, l’arminuta appunto. Nel gergo popolare, alla 13enne protagonista (interpretata dalla raggiante Sofia Fiore, esordiente con questa opera) viene attribuito l’epiteto di “ritornata”, e ciò, oltre a riallacciarsi al semplice spostamento familiare (dalla famiglia di “adozione” a quella originaria) ha anche valore di un vero e proprio risveglio da un torpore.
L’arminuta, attualmente in concorso alla 16esima edizione de La Festa del Cinema di Roma (che si tiene dal 14 al 24 ottobre 2021), nella selezione ufficiale, propone un tipo di cinema di gran classe ed eleganza, riflessivo, mai banale e intellettuale, che coinvolge il pubblico in modo cristallino, senza nessun artificio narrativo o registico. La realizzazione, distribuita da Lucky Red, su sceneggiatura di Monica Zapelli (I cento passi, Aspromonte – La terra degli ultimi) e della stessa autrice del libro, Donatella di Pietrantonio, arriva nelle sale italiane il 21 ottobre 2021.
L’arminuta: un distacco espresso su più livelli
L’arminuta vive un’esperienza terribile e rivoluzionaria: la protagonista, infatti, dopo aver vissuto per tutta la sua esistenza in compagnia della zia e dello zio, che l’hanno cresciuta come una figlia, ritorna al suo nucleo famigliare originario, dai suoi genitori di sangue. Il passaggio è traumatico specialmente perché incontra un cambiamento mastodontico: dalla bolla dell’aristocrazia, passa a delle condizioni di vita umili e misere. Oltre a cambiare lo status sociale, inoltre, anche a livello culturale ed educativo c’è, dal suo punto di vista, una regressione. Un trauma che, almeno nelle prime battute della realizzazione, sembra essere insostenibile per la giovane, chiamata troppo presto a crescere in un ambiente duro che non sembra appartenere al 1975, anno in cui è ambientata la pellicola.
L’unico punto focale del film, a livello narrativo e registico, è quello dell’Arminuta e non potrebbe essere diversamente: la protagonista è la sola ad avere la forza necessaria di trasformare la sua passività iniziale, data dallo spostamento di un realtà altolocata ad una misera, in una ripartenza difficile, ma necessaria. La ragazzina stessa è un filtro perfetto perché non solo subisce la storia in tutta la sua devastante carica drammatica, ma il suo sguardo è privo di qualsiasi costrutto, è schietto e senza nessun contatto esterno. Ecco che quindi, come mostra in modo evidente il copione, le relazioni che instaura con la sua nuova famiglia hanno un sapore del tutto particolare: sono distaccate e fredde all’inizio, ma piano piano crescono in positivo, rivelando una capacità di adattamento straordinaria.
Tutti questi elementi narrativi, seminati in sede di sceneggiatura con molta arguzia, sono degli ottimi spunti di riflessione sui più strati: il film non si riassume, quindi, come una semplice critica sociale, ma ha altre sfaccettature decisamente più importanti e impattanti per lo spettatore. Si parla del ruolo della maternità, della strazio e del dolore causato dalla perdita, dell’amore che, a seconda del contesto, è espresso attraverso atteggiamenti diversi, ma ugualmente votati al bene incondizionato. Il copione, inoltre, lavora molto bene sul dialetto popolare e sulla dizione, usandola spesso come arma di discrimine delle due realtà presentate: in questo senso, il valore del linguaggio è importantissimo.
L’Arminuta, all’inizio, è come se fosse un’aliena non riuscendo ad interagire a livello relazionale (il racconto che scrive per un concorso scolastico è proprio a tema fantascientifico), mano a mano che comprende il linguaggio più consono alla situazione, riesce ad avvicinarsi di più alla sua nuova famiglia, diventandone parte integrante. Anche la regia segue la stessa direzione di distacco, ma coinvolge strumenti alternativi: la separazione, in questo caso, sta nell’accostare sequenze più brutali e forti appartenenti alla sfera, per così dire, umile ad altre, invece, che sono velate da un filtro di nostalgia e sogno, come se facessero riferimento ad una realtà immaginaria. E in effetti, se non fosse per la chiara funzione di analessi, si andrebbero a confondere le scene dell’idillio passato con quelle in cui la protagonista va nuovamente in contatto con la sua famiglia adottiva nel presente.
L’arminuta: il coraggio di raccontare un dramma attuale con chiarezza e sincerità
La mano di Giuseppe Bonito, inoltre, dialoga con una fotografia espressiva che sfrutta i colori primari per differenziare gli ambienti: la stessa protagonista indossa sempre abiti di colori sgargianti e luminosi mentre tutti i membri della sua nuova famiglia, indossano vestiti scuri, quasi a manifestare una rigidità che oltre ad essere di costume si ripercuote anche sui comportamenti e gli atteggiamenti. Tutto questo impianto simbolico, dalle separazioni contenutistiche ai differenti stacchi cromatici, è costruito affinché sia comprensibile in modo semplice e didascalico, così da fornire al pubblico più chiavi di lettura alle quali appellarsi.
Nell’analisi è necessario anche parlare dell’ottima caratterizzazione dei personaggi e di quanto il racconto passa attraverso l’azione degli stessi, motori della storia in tutto e per tutto. La complessità della loro costruzione si vede già a partire dai loro gesti e dalla loro trasformazione nel corso della pellicola, che avviene anche grazie all’eccezionale cast coinvolto, tra i quali spiccano Fabrizio Ferracane, Elena Lietti e Vanessa Scalera. Nota di merito per l’esordiente Sofia Fiore che ha dimostrato di sapersi muovere agilmente sul set, dimostrando una maturità recitativa impressionante nonostante la giovane età, ovvero 14 anni, solo un anno in più rispetto agli anni di finzione scenica.
L’arminuta ha un altro valore notevole che non deve essere per nulla sottovalutato: parla di un dramma che, nonostante appartenga agli anni ’70, per forza di cose, si connette ai nostri giorni in modo limpido e cristallino. Certo, alcune immagini sembrano davvero lontanissime, ma non è tanto quello lo scopo del film: la vera funzione, infatti, sembra essere quella di mostrare come la realtà ha sempre una natura duplice e che la capacità adattative della gioventù sono così tanto incredibili da travalicare il tempo e lo spazio.
L’arminuta è una pellicola notevolissima che spinge la realtà cinematografica italiana su alti livelli: la regia di Giuseppe Bonito, matura ed elegante, riesce ad esprimere, con semplici e chiari passaggi, la complessità del romanzo di riferimento, utilizzando parecchie immagini esplicite e rimarcando più volte l’argomento centrale del film, il distacco tra ambienti sociali differenti. La sceneggiatura, seguendo a doppio filo la macchina da presa, evoca un’alienazione sia di forma (con l’utilizzo di diverse forme di linguaggio) che contenuto, descrivendo perfettamente la condizione psicologica della protagonista, una ragazzina che ha una crescita esponenziale all’interno della sua vita e che figura come la perfetta narratrice dell’intera realizzazione.