L’Arte della Fuga: recensione del film di Brice Cauvin

Un film a metà tra ironia e malinconia, al cinema dal 31 maggio.

Antoine (Laurent Lafitte), omosessuale, convive da dieci anni (con qualche dubbio, dato che dorme in un materasso gonfiabile accanto al letto matrimoniale) con Adar (Bruno Putzulu), e lavora ai cataloghi d’arte con la sua grande amica, svampitissima, Ariel (Agnès Jaoui). Ha attorno a sé una famiglia sentimentalmente disastrata: il fratello Louis (Nicolas Bedos) vive a Bruxelles e sta per sposarsi con Julie (Élodie Frégé), amatissima dai genitori; tuttavia la tradisce con una donna divorziata. L’altro fratello, Gérard (Benjamin Biolay), si sta separando dalla moglie, e non vuole accettare il divorzio. Viene licenziato e torna quindi a vivere in periferia, a Saint-Denis, con i genitori (Guy Marchand e Marie-Christine Barrault), proprietari di un negozio di abbigliamento in declino e impegnati a ficcare continuamente il naso negli affari dei figli. Il padre, peraltro, è vittima di molteplici infarti. Tra rimpianti, rimorsi e incomprensioni, non sarà facile per i personaggi riprendere le fila della propria vita.

L’arte della fuga: un mosaico amoroso come Love Actually

l'arte della fuga Cinematographe.it

L’arte della fuga racconta l’arte di chi fugge dalle proprie responsabilità, rispondendo colpevolmente alle aspettative degli altri. Louis non lascia Julie perché i genitori l’approvano incondizionatamente; Antoine, malgrado pensi e cerchi altri uomini, non molla Adar perché i suoi lo considerano “La cosa migliore che gli sia mai capitata”. Perciò L’arte della fuga è una piccola storia famigliare di pavidi e menefreghisti, le cui storture morali e sentimentali permettono solo una parziale conversione. Per la struttura, la tematica e la ricchezza del cast L’arte della fuga ricorda molto Love Actually (e pure la locandina sembra la medesima). Ma il film di Brice Cauvin è tutto meno che originale, risultando in tal modo ben lontano dall’omologo britannico (che pure in sé non è un capolavoro), in cui i personaggi erano legati tra loro da trame ben più complesse. Anche il finale è una risoluzione a metà, quale culmine di un’educazione sentimentale che però si scopre incompleta e tutt’altro che facile, lasciando insoddisfatto lo spettatore che vorrebbe una fine più delineata.

L’arte della fuga è un film a metà strada tra la delicata commedia e il malinconico polpettone

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A tutto questo si aggiungono una sceneggiatura (coscritta dallo stesso regista, Brice Cauvin, da Raphaëlle Valbrune-Desplechin e dall’attrice Agnès Jaoui, che aveva già lavorato come sceneggiatrice per Alain Resnais) più che dimenticabile, che strappa qualche risata senza esagerare, e un montaggio a tratti davvero imbarazzante, quasi da cartone animato, che cozza molto con l’allure del film, tra il malinconico e il faceto, senza però che il tono si decida mai tra la commedia delicata e il malinconico polpettone. Gli attori, peraltro bravi, con qualche punta di brillantezza per Lafitte e Jaoui, rimangono inevitabilmente ingabbiati in ruoli senza particolare spessore o caratura (Laurent Lafitte avrebbe poi vinto nel 2017 il César per il suo ruolo da attore non protagonista in Elle di Paul Verhoeven). Ne risulta un film trascurato anche registicamente, in cui alcuni passaggi narrativi non sono peraltro chiari, malgrado poi la storia banale non lasci spazio a fraintendimenti di sorta. A completare il disastro, il terribile doppiaggio italiano, trascuratissimo, che traduce “studente” quando si parla di una studentessa e si ostina ad arruolare professionisti di bassa lega. Fortunatamente, a risollevare la disastrata situazione c’è una discreta colonna sonora, che annovera tra le altre cose anche anche Never let me go di Stacey Kent e la Fuga di Vivaldi (appunto) interpretata dagli Swingle Singers.

Regia - 1.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2
Emozione - 1

1.8